1992: City of Joy di Roland Joffé
Evidente l’amore del regista (autore, tra l’altro, di Urla del silenzio e Mission) per il mondo indiano e il suo tentativo di ritrarlo con obiettività documentaristica.
Il film risulta avvincente e godibile anche a distanza di vent’anni dalla sua realizzazione. Commuove e coinvolge, emoziona più di una volta e rende lo spettatore partecipe di una lotta per la sopravvivenza che spesso diventa qualcosa di epico. Ma ciò che colpisce immediatamente è il notevole rilievo spettacolare dell’operazione, con fotografia e ambientazione particolarmente suggestive e accattivanti. L’impressione di essere davanti a un superkolossal hollywoodiano piuttosto che a una denuncia di una tragedia che si perpetua da secoli è ciò che ha dato maggiormente fastidio ai recensori più impegnati e sensibili.
L’occidentale in grave crisi spirituale ed esistenziale alla ricerca della propria identità e che ritrova equilibrio e serenità nel mondo indiano (dalla grande dignità interiore) è stato più volte trattato dal cinema. Questo è uno degli esempi più famosi e di più grande successo al botteghino (benché, come dicevo, la critica non si sia dichiarata del tutto soddisfatta).
La città della gioia è basato sull’omonimo best-seller di Dominique Lapierre del 1985. Lo scrittore francese qualche anno prima aveva fondato un’associazione umanitaria in favore dei bambini sofferenti di lebbra dei sobborghi di Calcutta dove visse per alcuni anni: il libro (che ha venduto oltre otto milioni di copie in tutto il mondo) e il film sono frutto di quest’esperienza.

Straordinario Om Puri nel ruolo dell’umile portatore di risciò, uno dei migliori attori asiatici (già apprezzato in Gandhi e East is East). Corretto (ma non più…) Patrick Swayze, lodevole nel tentativo di scrollarsi da dosso l’etichetta di bell’animale dello schermo.