[OM] La città incantata di Hayao Miyazaki arriva in Italia quando il regista è già ben noto al pubblico degli amanti dei cartoni animati giapponesi per diversi lungometraggi e, in particolare, per un celeberrimo episodio di Lupin III (Il castello di Cagliostro, 1979).
La forza della sua cinematografia sta nella bellezza incantevole delle immagini che propone ai suoi spettatori. Disegnati integralmente a mano e in parte animati al computer, i suoi film sono innanzitutto una gioia per gli occhi e per il cuore. All’interno della sua produzione, dal fortissimo carattere ambientalista, La città incantata raggiunge un superbo equilibrio tra delicatissima allusività simbolica e chiarezza narrativa, che forse altrove, soprattutto per un pubblico euroamericano, è a tratti stentata.
La storia è semplice, nella sua dimensione magica. Una famiglia della media borghesia (l’aspetto economico, per quanto surclassato dallo smalto dei colori e delle forme, è ben presente nel film) entra per caso in una realtà fantastica a prima vista deserta. In seguito a un pasto fin troppo abbondante, i genitori della tenera Chichiro diventano maiali (e chissà che Circe non ci abbia messo lo zampino!) e sono destinati al macello per quella elegante casa di riposo, quale si rivela, per fantasmi. Lì, la giovane protagonista affronterà la sua Odissea: un lavoro per salvare la sua famiglia da una morte certa e orrenda.
Il lavoro è qui funzionale alla salvezza, a un riscatto che tutti avvertiamo necessario. L’empatia del pubblico, dunque, passa attraverso la fatica, un mestiere, il sudore e, soprattutto, la trasformazione di una giovane viziata della classe media orientale in una donna matura che recupera il suo passato, cui hanno rubato l’anima.
Ma ne La città incantata c’è posto anche per l’amore, un sussurro dalla delicatezza di un bacio a operare nella piccola Chichiro una metamorfosi a suo modo dolorosa, in seguito alla quale la via del ritorno, la nostalgia, equivale innanzitutto a scoprirsi diversi.
L’eleganza del tratto, la soavità delle singole scene e del film nel suo insieme fanno de La città incantata un’opera fondamentale sul diventare adulti oggi, in una concretezza che vuole riparare alle false luci del sogno e della morte. Chichiro ha paura di quel mondo in festa, in attesa soltanto di divorare le sue vittime incaute; e – pur non capendo, ma con un’ingenuità, una testardaggine e una serietà senza eguali – fiduciosa in un prossimo che non ha proprio l’aria di meritarlo, riscatta con la propria la trasformazione dei genitori.
Del resto, Chichiro non può che afferrarsi a una speranza, non si perde d’animo in un mondo d’orrore e, insomma, sa sognare proprio mentre prova a rimediare a un sogno troppo facile: la ragazza non rinuncia alla sua umanità, ma è di un garbo esemplare nel tratteggiare tutta una tavolozza di umori e sentimenti che le si dipingono dentro e traspaiono al sole di un’arte solida e matura.
Chiaro intento didascalico e sapiente tocco del seduttore, in La città incantata Miyazaki è una voce discreta e irresistibile in un panorama normalmente offeso dalla banalità del quotidiano e del male pubblicizzato a grande schermo.
Magazine Animazione
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