La civiltà del sorriso

Da Gio65 @giovanniparigi

  Non era ancora passato un secolo da quando l’ultima rivoluzione aveva definito la Storia precedente come un fiume di veleni da prosciugare, che da ogni angolo della società filtravano gli umori del dissenso. La civiltà che si era affermata, battezzata Civiltà del sorriso, nonostante avesse sostituito in toto ogni aspetto culturale delle civiltà passate, non era però riuscita a imporsi completamente e molte erano le frange di resistenza che ne laceravano il tessuto sociale e culturale. Per facilitare la comprensione del lettore crediamo sia bene, ora, ripercorrere le tappe che permisero il suo fiorire.

La Civiltà del sorriso si erse come diga a quell'alluvione di paure e odi che furono i torbidi del ventiduesimo secolo, in cui uomini di Stato, intellettuali e uomini di piazza gareggiarono per arrivare a quella che tutti definivano guerra ineluttabile. E in parte ci arrivarono, anche con l’aiuto di filosofi e uomini di studio, che ridussero la politica a uno sfogo di risentimenti.

In questo crescendo di disordini, le idee politiche improntate al più bieco populismo e odio di classe, nonché le risorse della tecnica e le forze più vitali dell'intelligenza, concorsero ad accelerare un processo di decomposizione simile alla lebbra, che staccava dal volto della società brandelli di carne. Crollavano interi blocchi del sistema sociale, tra applausi e grida di hurrà, mentre dietro la cortina di polvere si aggiravano gli spettri della fame e della miseria. Quegli anni, con il loro carico di omicidii, sacrilegi, minacce avrebbero segnato per sempre la fiducia dell'uomo in una qualche forma di società civile, se non si fosse corso ai ripari. Corsa che assunse le forme di una ressa per tutti i cervelli pensanti e i cuori ancora pulsanti (scrittori, statisti, filantropi) attorno a quell'incendio che minacciava di ardere l'intera civiltà. Certo, non mancarono speculatori ed egoisti che si fregavano le mani nella speranza di una grande guerra escatologica che li avrebbe fatti arricchire enormemente, ma questi si riuscì a metterli in un angolo.

Da più parti si riteneva imminente l'ingresso nella storia dei cavalli apocalittici e di conseguenza dell'Anticristo, tanta era la pazzia che come un mulinello era penetrata nella direzione del sociale, del culturale e del religioso. Nazioni che si fronteggiavano, classi sociali che si urtavano, guerra agli uomini e sfide a Dio, facevano di quei momenti un esperimento generale dello scompiglio che secondo alcuni si avrebbe avuto quando, preceduto dalla Morte, sarebbe apparso sulla terra il primogenito di Satana.

Questa civiltà, che nacque dalla melma dei torbidi sin qui descritti e che fu definita del “sorriso” prendendo a prestito dal simbolismo medioevale la tecnica per veicolare e riassumere lo spirito di quella nuova civiltà, di cui il sorriso umano era il simbolo (in particolare si ricorreva a quello dei bambini che apparivano nei grandi schermi luminosi ricordando, con un ritmo martellante, che un bambino sorride quattromila volte al giorno), fu estrema sintesi del pensiero umano che l’aveva preceduta e poi, come accadeva alle salme dei faraoni, si lasciò che gli stessi artefici della progettazione sigillassero per sempre i labirinti d'accesso alla storia e alla cultura degli uomini appartenuti alle epoche passate. Fu così che predatori di sapere si accanivano alla ricerca di antichi testi, fossero anche umili compendi, turbando il sonno non dei grandi pensatori del passato, ma dei governanti attuali, sempre timorosi che risorgessero gli spiriti indomiti che tante guerre, rivoluzioni e disordini avevano procurato alle civiltà precedenti.

Infatti, il pensiero principale che essi avevano, e per cui si ritenevano” buoni padri”, era quello della Concordia e per essa erano disposti a pagare qualsiasi prezzo in termini di libertà. L'individuo non poteva affermarsi e far valere niente che fosse di ostacolo alla concordia sociale, e persino nel privato, nelle «società domestiche», com'erano chiamate le famiglie, tutto era disciplinato capillarmente, mettendo al bando usi e consuetudini, ma anche il senso e il significato di familiarità.

Tutta la materia sociale, politica ed economica era racchiusa in testi chiamati «Alfa e Omega», in ultimo ossequio alla razionalità greca che ne componeva la struttura logica interna. Il consulto dei testi era appannaggio solo di coloro che erano qualificati da un lungo studio e una «anima sociale» immacolata e la seppur minima infrazione faceva si che se ne fosse esclusi. Chiusi in una casta che in tutto e per tutto sostituiva quelle religiose del passato, i tutori dell'ordine e della legalità interagivano solo con le più alte cariche, e non si distinguevano per fama o capacità, ma solo per zelo.

Il sentimento religioso, che sin dagli albori dell'umanità aveva accompagnato l'uomo, si era via via esaurito sostituito da un ben dettagliato senso scientifico che pervadeva anch'esso, come quello legalistico, tutta la società. I due spiriti, quello legale e quello scientifico, erano stati ribattezzati come «le buone sorelle», mentre la concordia che le univa faceva le veci di quello che il cristianesimo, nella sua forma cattolica, chiamava Spirito santo. Tutti e tre insieme componevano la «Sacra famiglia», una sorta di divinità una e trina, che viveva non in virtù dell'amore che univa legge e scienza- come avrebbe suggerito il passato- ma della concordia che scaturiva dalla loro simbiosi.

Diversamente da ciò che si potrebbe pensare, l'economia non era la voce più importante. Questo perché era stata rifondata nel suo essere, estirpando i due grossi tumori del passato: capitalismo e comunismo, le cui metastasi erano state bloccate riducendo il privato e il collettivo in angoli sempre più bui dell’economia fino a scomparire del tutto.

La nuova società aveva data anche una totalmente nuova deontologia professionale. In caso di malattia inguaribile, ad esempio, i medici non si prendevano cura  dei pazienti nella speranza di un miglioramento inaspettato, ma la malattia era messa a frutto per la collettività, la quale poteva usufruire degli organi del malato terminale, previa una dolce morte. Questo principio dell’"inutile cura" passò rapido nella mente della popolazione grazie a un'intensa campagna d'informazione sul dolore che aveva contraddistinto le società passate e che esse non erano mai riuscite a debellare. E perché non si perdesse la memoria di ciò che l'uomo aveva sofferto prima dell'avvento della Civiltà del sorriso, si lasciava che la natura in taluni casi facesse il suo corso. Quando ad esempio dagli screening sul nascituro si vedeva che c'erano delle malformazioni, si procedeva nella quasi totalità dei casi a risolverle, mentre per alcuni, generalmente quelli che le culture del passato avrebbero definito “casi molto pietosi”, non s'interveniva -e questo senza che i genitori fossero informati- dando poi la responsabilità dell'incresciosa nascita all'errore umano. I bambini che nascevano malformati o con gravi sindromi erano esposti, appena l'età lo consentisse, ma in alcuni casi subito, agli altri genitori e figli per mostrar loro cosa sarebbe la natura se lasciata al suo corso. In particolare i bambini affetti da Sindrome di Down erano mostrati nelle classi durante le lezioni dedicate alla scienza in genere e alla medicina in particolare, per far vedere l'incompletezza e il dolore che genera la natura se non controllata dall'uomo.

Certo non tutto filava come i legislatori avrebbero voluto. Sin dall'inizio di questa storia abbiamo detto che il dissenso oramai filtrava dalle paratie ritenute stagne della nuova civiltà. E proprio per combatterlo, nel timore di una ricaduta negli errori e orrori del passato, si erano messe in campo tutte le risorse suggerite dall'intelligence del momento. I vecchi metodi erano stati banditi e sostituiti da una figura tutta nuova per l'individuazione e rimozione del dissenso: gli usignoli.

Nelle scuole si dava molta importanza alla preparazione degli alunni, ma più ancora si dava importanza alle loro innate attitudini, che sin dai primi anni scolastici erano investigate e segnalate a un ministero competente. Fu così che ogni bambino era studiato nelle sue peculiarità, cioè quelle che una volta erano chiamate doti naturali. Certo, di queste adesso non si ringraziava la natura, ma solo la felice combinazione di geni che le aveva determinate. Si erano compiuti notevoli studi in questo campo, ma i passi in avanti erano stati ben pochi. La selezione genetica per fini riproduttivi dei bambini più dotati non era mai riuscita a dare la certezza dell'esito finale, tanto che dall'unione di ex bambini prodigio spesso nasceva la mediocrità.

Per selezionarli, nelle scuole, fin da principio si era introdotto lo studio di ogni forma di arte, certi che solo quello sfuggente afflato artistico fosse la vena più preziosa da individuare e mettere a frutto, naturalmente per il bene e la concordia della collettività. I migliori in un qualsiasi campo artistico formavano classi a parte; poi un'ulteriore selezione coglieva i germogli artistici più preziosi. Da questi fuoriuscivano gli usignoli, i bambini destinati al "canto", come in gergo si esprimevano i loro mentori sulla falsa riga dell'uso invalso tra i popoli antichi di accecare le povere bestie.

Una quasi fredda notte di fine Ottobre uno di essi finì sul tavolo del dottor Parish, coroner all'ospedale della città dove fu trovato morto un usignolo. Siccome le cause del decesso erano sfuggite al primo esame e tutto escludeva un suicidio, si era deciso di eseguire l'autopsia per sapere almeno di cosa o come fosse morto. Il medico che se lo trovò di fronte sul tavolo operatorio era un signore di mezza età dal volto liscio come quello di un bambino, cosa che lo faceva apparire più giovane dei suoi quarantasei anni. Occhi azzurri e carnagione chiara, uniti a una folta capigliatura castana pettinata con cura, ne facevano sicuramente un bell'uomo. Se non fosse stato per la sua indole solitaria e taciturna -cosa che ben si addiceva alle silenziose compagnie cui per professione era legato- sarebbe stato un ottimo marito, mentre era quello che potremmo definire uno scapolone impenitente e convinto.

Quando il cadavere arrivò in sala il suo turno di lavoro era agli sgoccioli, ma siccome voleva essere lui a eseguire l'autopsia, sbrigò alcune pratiche che gli permettevano di rimandare tutto al suo turno seguente. Poi, rivolto all'assistente, gli disse che se ne poteva andare: lui avrebbe finito gli ultimi incarichi e aspettato l'altro turno. Rimasto solo, fissò a lungo quel corpo immobile, in particolare ne osservava la faccia, i cui occhi semichiusi lasciavano intravedere due pupille azzurre che ben si addicevano a quel volto molto giovane e dai lineamenti eleganti. Un ciuffo di capelli ne tagliava la fronte coprendo in parte il sopracciglio destro. Le labbra sottili ma ben disegnate erano impercettibilmente discoste l'una dall'altra, dando alla sua espressione una sensazione di fanciullesca serenità. I suoi abiti erano ricercati, ma non troppo: indossava un paio di pantaloni di velluto chiaro color birra e scarpe di cuoio, mentre sotto un ordinario impermeabile si notava una camicia ben stirata di un bel marrone scuro.

“Salve amico” disse a un tratto il coroner “sono proprio curioso di sapere cosa diavolo ti è successo, ma lo vedremo al prossimo incontro, cioè fra due giorni. Per oggi il mio turno è finito. Non preoccuparti, che il tempo passa in fretta e non credo che tu abbia impegni urgenti”.  Poi, per eseguire le formalità del caso, prese la cartella d'ingresso in ospedale dove, fra le altre generalità, lesse la sua professione: Dipartimento di lotta e prevenzione del crimine.

“Ehi, ma allora sei uno importante. Guardiamo se c'è altro” disse correndo velocemente il foglio che aveva tra le mani. “Ecco, segni particolari... cieco dall'infanzia?!”. Il coroner si fece muto: era un usignolo quello che aveva di fronte. Fino allora ne aveva sentito solo parlare, ma mai ne aveva incontrato uno, neppure da vivo. Quello che fino pochi minuti prima era stato un caso di semplice routine, si trasformava lentamente in un caso tutto particolare ed estremamente interessante. Cominciò così una sommaria autopsia partendo dal volto che non presentava nessuno dei segni tipici di una morte violenta. Poi passò alle mani che non presentavano nessuna ferita, macchie anomale o tagli. Infine al busto, alla ricerca di sangue, ma niente! Pensò allora che si trattasse di qualche problema al cuore, ma non risultava niente dalla sua cartella della salute, come constatò.

“Ma cosa ti ha ucciso, mica sarà stato il veleno?» si disse incredulo, poi aggiunse: «lo vedremo certamente, ma non oggi”.

Intanto nell'ospedale si era fatto silenzio. Il coroner guardò l'orologio appeso alla parete della stanza. Mancavano circa dieci minuti al cambio del turno. Avrebbe avuto ancora tempo per l'ultima sigaretta prima che i suoi colleghi venissero a sostituirlo. Tolse di tasca il costosissimo tabacco, le cartine e l'accendino e posò tutto quanto alla sua destra sul tavolo su cui si era seduto. Quello del fumo era uno dei suoi pochi vizi, per altro ben tenuto sotto controllo, date le pochissime sigarette che al giorno fumava. Gli piaceva rollarsi le sigarette, per questo talvolta si faceva lunghe passeggiate per trovare un negozio che vendesse ancora pacchetti di trinciato aromatizzato. Non distogliendo gli occhi dall'usignolo, prese una cartina dal pacchetto, ne liscio gli angoli e la modellò perfettamente incurvandola con le dita. Poi scelse con cura la quantità di tabacco e la distribuì nella cartina con precisi e calmi movimenti delle dita. Controllò con gli occhi che tutto fosse preciso e sigillò la sigaretta con la saliva. La accese e aspirò profondamente una boccata di fumo. Poi con un gesto istintivo e improvviso fece roteare il polso verso il suo viso e controllò l'ora. Questo movimento generò un cerchio di fumo che lentamente cominciò a salire al soffitto dilatandosi fino a scomparire risucchiato dagli aeratori, che, rilevata la presenza di fumo di sigaretta, si erano accesi diffondendo nella stanza odore di resina di pino.

“Perché…perché non diamo un'occhiata a cosa nascondi negli abiti?” disse a un tratto sottovoce iniziando a frugare le tasche dei pantaloni, che risultarono vuote. Poi passò a quelle dell'impermeabile, anch'esse vuote se si eccettua un mazzo di chiavi 

e un foglietto con scritto che attirò la sua attenzione. Era la prima stesura di una poesia dal titolo "Foglie", che recitava:

Ti chiederò il nome passando,

come con altri, 

foglia su foglia;

poi con un fiocco di luce su tela grezza 

e una natura morta come bastone

riprenderò il cammino

finché il vento non strazi

questa povera memoria secca

Poco più sotto c'era una nota scritta con mano frettolosa in cui si leggeva :"Mettere ben a fuoco  la metafora  alberi che s'incontrano in natura /albero della vita, il quale come loro perde foglie/nomi/persone che distaccandosi si seccano scomparendo dalla memoria".

“Ma tu guarda, un funzionario dell’anticrimine che scrive poesie. Bene, bene sei un soggetto sempre più interessante” disse continuando a guardarlo. Poi si passò una mano prima sulla bocca, poi sul mento incerto sul da farsi. Non era da lui, coroner conuna buona esperienza, arrendersi alle prime evidenze, così frugò ogni indumento in tutti i suoi angoli sgualcendoli, deciso a trovare qualcosa che istintivamente sapeva esserci. D'un tratto sentì, nella manica del soprabito, qualcosa simile a della carta, ma più spessa. Controllò se all'interno della manica ci fossero delle cuciture, magari sdrucite, ma tutto era in ordine. Allora prese un bisturi e con precisione fece un taglio all'altezza del foglio. Con cura lo estrasse dall'apertura appena fatta e si rese conto che era una fotografia. Ritraeva lui e una giovane ragazza su un terrazzo prospicente il mare. La ragazza indossava un maglioncino blu con una camicia dal colletto bianco e questo faceva pensare che la foto fosse stata scattata d'Inverno. I suoi lunghi capelli castani erano raccolti in una coda e sorrideva. Lontano sul mare si intravedeva una vela. Girò la fotografia e, sul retro, notò poche righe ma capaci d'illuminare tutto il caso: “Signore” si leggeva "se è venuto in possesso di questa foto, significa che mi hanno ucciso. Il perché lo troverà scritto nella memoria che ho nascosta nel bavero dell'impermeabile. Lei è la mia ultima speranza, spero che le sue mani e il suo cuore sapranno far buon uso delle informazioni in essa racchiuse. La ragazza che vede nella foto era la mia fidanzata ed è all'oscuro di tutto. Il suo indirizzo è Stanford road, 15. Consegni a lei questa foto e le dica che l'amo e l'ho sempre amata. Se farà quanto le ho detto gliene sarò eternamente grato”.

Le poche parole lette che parlavano di un omicidio gettarono il dottore in una ressa di pensieri. L'unico modo per venirne a capo era leggere la memoria contenuta nel bavero del soprabito. Prese di nuovo il bisturi, certo che le pagine o la pagina in esso contenuta fossero state cucite dentro. Invece si trovò di fronte a una cerniera che chiudeva una specie di cappello contro la pioggia. Il cappello era di tela e arrotolato. Lo estrasse e lo spiegò fino a individuare una piccola pallina di carta che subito riportò alle sue forme normali stirandola con le mani. Notò una calligrafia minuta e precisa, che sin dalle prime lettere catturò la sua attenzione. Poi iniziò a leggere:

Se ha seguito le mie istruzioni non è necessario ripetersi, ma qualora fosse venuto solo ora in possesso di questo foglio sappia che nella manica destra è cucita una foto. Io sono uno di coloro che chiamano usignoli. Ho contribuito alla cattura di innumerevoli malviventi, ma il vero malvivente è sfuggito ai miei sensi fino a una banalissima festa di compleanno in cui ebbi l’occasione, rarissima, di parlare con un legislatore e per questo le dico che è lo Stato il vero criminale. Sappia che la malattia che mi ha reso cieco del tutto e che ha permesso che si facesse di me un usignolo fu indotta dall'esposizione ai raggi Coltrane, rapidi e indolori, ma soprattutto ignoti alla popolazione civile. Prima di allora i maestri dei primissimi anni di scuola mi consideravano un poeta di genio, e questo segnò la mia disgrazia. Infatti, prima fui privato degli amici, poi dei genitori e rinchiuso in una classe speciale che avrebbe permesso il fiorire del mio precocie genio poetico, così almeno dissero ai miei genitori. Niente di più falso perché, come le ho detto, fui sottoposto a una seduta settimanale di raggi di cui le ho parlato fino alla completa cecità. Con mille scuse e reticenze, causata la mia cecità, informarono mia madre e mio padre i quali, da sempre cittadini modello, per rendermi utile alla società, nonostante la disgrazia, accettarono di iscrivermi a una scuola per ciechi dove, con tecniche che non sto qui a descriverle, mi resero una perfetta macchina anticrimine, sublimando e sfruttando la mia sensibilità. Circa la mia morte credo sia dovuta al fatto che ultimamente non ho superato il test di affidabilità a cui periodicamente siamo sottoposti, per cui qualcuno dei miei colleghi ha intuito che sono in rapporti con Jessica Poltrow, nota a tutte le polizie dello stato. L'ho conosciuta, ma meglio sarebbe dire riconosciuta, durante un colloquio di routine in uno dei tanti uffici di polizia, ma non l'ho segnalata alle autorità, perché, dopo quel colloquio avuto con il legislatore, ritengo che i veri criminali non siano perseguiti, ma occupino le nostre gerarchie. Dopodiché, la Poltrow, resasi conto del fatto, mi ricontattò. Tutto questo non è sfuggito, come le ho detto, ai revisori, i quali, come è prassi, hanno suggerito la mia eliminazione. Jessica, poco tempo prima, non solo mi aveva fatto pervenire alcuni testi di filosofia, dottrine politiche e un Vangelo, ma mi aveva descritto nei minimi dettagli l’educazione di un usignolo, per questo e per la crudeltà con cui hanno gestito la mia vita le dico che mai è esistita una civiltà feroce come la nostra. Io non so cosa lei possa fare, non la conosco; ma se ancora in lei alberga un briciolo di umanità agisca. Non importa se riuscirà in qualcosa. Alla fine spero che qualcuno riuscirà a far piangere i cultori del sorriso.

Con affetto

Un usignolo”.

Stavolta il dottor Parish non aveva svolta una delle sue solite autopsie: non aveva tagliato carni e organi, ma sezionato un'anima nascosta in ordinario soprabito, e i risultati erano del tutto inaspettati. Quei pochi fogli rappresentavano la malattia che aveva ucciso un giovane funzionario di polizia la cui unica colpa era di aver partecipato a una festa di compleanno e svolto anche lì il suo dovere: la ricerca e il riconoscimento dei criminali, fossero essi annidati nei bassifondi della città o nelle ricche dimore in festa. A quel punto poca importanza aveva il come fosse successo, ma solo il perché: l'ultimo canto dell'usignolo era divenuto troppo scomodo per l'udito dei padroni del sorriso e si era deciso di sopprimerlo, all’oscuro però che lui avesse tenuto nascoste le ultime note della sua melodia. Il dottor Parish si rese conto che fra poco sarebbero arrivati i colleghi a dargli il cambio, per cui avrebbe dovuto riporre il cadavere nel cilindro a magneti. Lo lasciò invece sul lettino con il quale era stato portato. Poi si avviò verso la porta e prima di spengere la luce dette un ultimo sguardo all'usignolo e indossò il soprabito. Sfiorò con le dita un interruttore e la stanza si fece buia. Aprì la porta e uscì lasciandola socchiusa: un fascio di luce proveniente dal lungo corridoio illuminò il cadavere. Il coroner si avviò lento verso la grande porta a vetri dell'uscita principale e quando vi fu giunto vide la sua immagine riflessa. Un timido sorriso si fece strada sul suo volto alla vista del bavero alzato e delle sue mani nelle tasche del soprabito. Queste furono le ultime cosa che vide di se stesso come coroner prima di scomparire in quella prima, vera fitta nebbia di tardo Autunno.


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