Titolo: La collina del vento
Autore: Carmine Abate
Editore: Mondadori
Anno: 2012
Il Campiello sembra prediligere le saghe familiari a sfondo storico. L’anno scorso il premio è stato assegnato ad Andrea Molesini che, in “Non tutti i bastardi sono di Vienna”, ha descritto le vicende di una famiglia veneta ai tempi della prima guerra mondiale. Quest’anno il premio è stato assegnato a “La collina del vento”, un’opera nella quale Carmine Abate narra i fatti della famiglia Arcuri, calabrese, attraverso quattro generazioni.
Parlare di quattro generazioni significa descrivere eventi che occupano molti anni del secolo scorso: le due guerre mondiali e l’epoca fascista, sino al secondo dopoguerra carico di promesse e di disillusioni (come i fatti di sangue di Fragalà Melissa del 29 ottobre 1949).
La storia della famiglia Arcuri è raccontata da Rino, discendente della dinastia che risale a Michelangelo, Arturo e Alberto: una stirpe fiera, orgogliosa, antifascista, che si identifica nel rapporto viscerale con la collina del Rossarco. Alla quale la famiglia si attacca, resistendo alle richieste d’acquisto che vengono rivolte: prima dal signorotto del luogo, don Lico, poi dagli speculatori edili. Con la minaccia incombente di un esproprio statale per ragioni archeologiche.
Il rapporto ancestrale con il luogo è ambivalente: la collina custodisce passato, segreti e radici della famiglia Arcuri; gli Arcuri sono i tutori dell’incolumità del Rossarco.
“La verità è che i luoghi esigono fedeltà assoluta come degli amanti gelosi: se li abbandoni, prima o poi si fanno vivi per ricattarti con la storia segreta che ti lega a loro; se li tradisci la liberano nel vento, sicuri che ti raggiungerà ovunque, anche in capo al mondo.”
In una visione della natura a volte idilliaca, a volte minacciosa e spaventosa. Con il vento, quello del titolo, che soffia: “… Vide l’ombra del vento selvaggio che gli svolazzava attorno: pareva il mantello nero che il padre indossava d’inverno, e pure la voce era del padre, un lugubre lamento che passo dopo passo diventava urlo di rabbia, canto di protesta, eco di chitarra battente.”
Profumi, colori e sapori della Calabria
La storia scorre avvincente, tra amori, matrimoni, nascite e morti, scavi archeologici, ritrovamenti di reperti e tesori, faide e invidie.
Leggendola, si sentono i profumi della nostra Calabria: “Era un miscuglio di ginestra e sambuco in fiore, di origano e liquirizia, di cisto, menta e malva selvatica, che la brezza marina faceva roteare sulla cima della collina come un’aureola invisibile.”
Se ne vedono gli splendidi colori: “Il colore dominante era il rosso porpora dei fiori di sulla. Tutt’intorno, alberi da frutto, cespugli di lentisco, alloro, ginestra, rosmarino e sambuco, una vigna, ulivi secolari e isolotti di fichi d’India sparsi qua e là, e un bosco di lecci …” Anche se il rosso tinge tutto il romanzo: “Da allora il colore rosso divenne la sua ossessione, riprese a dipingere con foga, cercando di rielaborare i lutti della sua vita … Rosso sangue, rosso cardinale, rosso porpora, rosso sole, rosso fiamma, rosso vino, rosso cocciniglia, rosso tramonto, rosso labbra, rosso fuoco. Rossarco, rossamore.”
Della Calabria si gustano i sapori: “tre bottiglie di vino gaglioppo e un panaro di fichi”; le “tagliatelle al sugo di capretto”;“salsicce, soppressate … i barattoli di sardella, il miele della collina.”
“… Ci aspettavano con le loro specialità, tagliolini al sugo di cinghiale e formaggio pecorino, peperoni fritti con patate, cipolle e melanzane, le uniche cose buone di quella giornata orrenda.”
Genere e stile
Difficile inquadrare il romanzo in un genere: per certi versi romanzo storico con incursioni archeologiche, per certi altri - i misteri della collina – romanzo di tensione ( “Altro che necropoli della mitica e mite Krimisa, questa collina è un sepolcro di segreti sanguinosi!”)
Lo stile è originale, fedele alla realtà descritta. Nel ricorso a contaminazioni dialettali e locali: “Don Lico tiene solamente una cosa nella crozza: fricarci la nostra terra con le buone o con le male.” … Noi non dobbiamo cascarci, non siamo ciòti come crede lui.”
Un libro non soltanto da leggere. Anche da gustare.
Bruno Elpis
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