La collina delle croci
di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
“Che possa riposare in pace”, e la bara fu calata con sveltezza nella fossa.
Gli uomini ben intabarrati premevano, con la punta dell’indice, gli occhiali scuri sui nasi aquilini. Le donne asciugavano le solitarie lacrime con fazzoletti d’un bianco virgineo, badando bene di non incastrare le unghie smaltate di fresco nell’intrico della veletta nera. E tutte, teatralmente, si curavano d’aggiustare il cappellino in testa. Molti gli ombrelli aperti e puntati contro il cielo procelloso che minacciava tuoni e fulmini.
La strada continuava a spingersi lontano, oltre l’Orizzonte che seppur a occhi nudi m’era dato di vedere; potevo intuire che il mondo non era limitato né al calare del sole né al suo sorgere.
Quando partii dal mio villaggio, non lo ricordo con esattezza: ma dev’esser stato parecchi anni or sono, quando l’argento non m’adombrava le tempie. Ero giovane quando decisi d’intraprendere il viaggio che m’avrebbe condotto là dove riposa il corpo del mondo. In molti si sono prodigati a dissuadermi, ma io testa di mulo – non a caso battezzato cristiano ricevetti nome Julus Cefalo – non considerai gl’avvertimenti né dei miei vetusti né quelli degl’amici più cari. Epperò ricordo come fosse ieri il giorno della partenza, il sacco di juta sulle spalle e gli sguardi dei popolani dibattuti fra un accenno di tristezza e l’invidia, perché mai, prima di me, un sol uomo aveva mai osato di varcare il ridicolo limite del villaggio per intraprendere una qualsivoglia avventura. “Julius Cefalo, che Dio t’accompagni!”, gridavano tutti, o quasi; c’era infatti chi restava in silenzio con un ghigno di scherno disegnato fra le labbra. Io li guatavo uno ad uno e sorridevo felice: presto avrei sciolto le catene e sarei stato libero di camminare le strade. Un passo dopo l’altro m’allontanavo, e le voci di chi mi amò e un po’ mi odiò si fecero confuso brusio in lontananza.
Ed ora gl’anni s’accompagnano al mio passo stanco. Per l’Eternità.
0.000000 0.000000