C’è un clima morale nell’Europa centrale attorno al 1940 che ha consentito a Eichmann e ai suoi, all’opinione pubblica tedesca, agli stessi Consigli ebraici, di perpetrare senza scandalo il più grave scandalo della storia, o assistervi indifferenti: un “vuoto morale”. È questa la “banalità” del male. Ritracciata non con gli strumenti della storia (l’antisemitismo, il sionismo, l’assimilazione), ma indagando come è successo – come è successo il vuoto morale – e chiedendosi-ci se esso non possa ripetersi. Il processo è un pretesto. Quello diArendt è anzi un processo ai processi, che qui e lì si cominciavano a montare, dopo vent’anni, ai responsabili del genocidio, ma tutti individuali, essendo la colpa dei codici individuale.
I calunniatori pubblici, della Germania?
Eichmann si richiama a Kant, come ogni buon tedesco, sul dovere di obbedienza. Hannah Arendt conosce bene Kant e gli ribatte: “Nessun uomo per Kant ha il diritto di obbedire”. Ma senza compiacenze, il suo “male banale” è una condanna complementare del nazismo: contro il quale, spiega, ci vuole disprezzo e ironia – ciò che sarebbe stata una buona ricetta per la Germania, per il passato che non passa, da buona tedesca inossidabile: del nazismo converrebbe “parlare con toni patetici, perché così facendo lo si sminuirebbe”. E con ironia, per quanto tragico sia stato, “perché ciò è segno di sovrano distacco”. E a tutti manda la poesia di Gottfried Keller, “I calunniatori pubblici”.
Una ricetta buona per le vittime ebree e per chiunque, anche per i tedeschi. E per se stessa di fronte agli attacchi inverecondi dell’ebraismo al suo “male banale”. Fest e Hannah Arendt condividono l’analisi-anamnesi di Hitler “incarnazione dell’uomo medio”, non un pazzo. Anche se antinazionale. “La demonizzazione serve a creare un alibi”, concordano. Mentre è vero che lo sterminio, assicura Hannah Arendt per “innumerevoli testimonianze” dei reduci di guerra americani, sembra avere “terrorizzato” gli Alleati più dei tedeschi.
È questo un libro per spiegare un altro libro, “Eichmann a Gerusalemme”. Raccoglie le lettere scambiate tra lo storico e la filosofa, e la trascrizione di una trasmissione alla radio tedesca, dopo gli articoli di Hannah Arenndt, poi raccolti in libro, su Eichmann e il processo a Gerusalemme. Con due ampi saggi, dei curatori tedeschi e del curatore italiano, Corrado Badocco, una bibliografia (in italiano!), e quattro degli interventi di cinquant’anni fa, pro e contro Arendt.
Si cominci dalla fine, dal saggio di Corrado Badocco. Sulla stupidità, Dummheit, tedesca – un paravento, peraltro spesso rifiutato. Su Hermann Rauschning, nazista pentito, autore prima e durante la guerra di libri importanti, i cui titoli hanno fatto epoca, “Conversazioni a tavola con Hitller”, 1938, “Die Revolution des Nichilismus”, 1938, “Die conservative Revolution”, 1941, nel dopoguerra cancellato dalla memoria. Sulla “emigrazione interna”, che portò alla cancellazione di Rausching e a qualche ruggine perfino con Thomas Mann: la categoria fu avanzata il 18 agosto 1945 in forma critica, da un Frank Thiess poi dimenticato anche lui. Su Jünger, sulla conversazione da lui ascoltata dal barbiere a Kirchhorst, a proposito dei russi prigionieri addetti ai lavori in campagna: “Che esseri subumani, sembrano animali… Rubano il cibo ai porci!”. Cui l’autore delle “Irradiazioni” faceva seguire la considerazione: “Si ha spesso l’impressione che il borghese tedesco sia governato da un demonio”. Che però, presente nella prima edizione, 1949, dei diari di guerra, fu espunta da Jünger nelle riedizioni successive, dopo che Hannah Arendt l’aveva ripresa, nel 1950, in “Reportage dalla Germania. Postumi del dominio nazista” – benché il “Reportage” avesse indirettamente “riabilitato” lo stesso Jünger, meglio dei non luogo a procedere.
Badocco richiama anche, nella controversia sulla “banalità” di Eichmann, la solidarietà di Jaspers a Hannah Arendt, al punto da interrompere ogni contatto con l’ipercritico Golo Mann, altro suo discepolo famoso. E la divisione presto –.meno di due decenni dopo la guerra – degli storici dello sterminio fra “funzionalisti” e “intenzionalisti”, che sarà ripresa venticinque anni dopo nello Histotikerstreit, la contesa degli storici – con l’esito inevitabile di normalizzare la vicenda.
Su Fest riabilitatore incauto di Speer, invece, la postfazione fa qualche digressione confusionaria. Seppure anche qui ponendo paletti importanti. Non si può dire Fest tenero col nazismo. Speer era un nazista, Fest s’è sbagliato e lo ha riconosciuto: in Speer “si rifletteva tutta la problematica costruzione dell’identità nazionale tedesca dal secondo dopoguerra”. Ma, seppure non volendo (ma è dubbio), Fest ha posto le basi per una revisione della storia del nazismo, non più chiuso nell’esecrazione. Forse inevitabile ma già in atto.
La storia che verrà
È su questa prospettiva che l’assunto di H.Arendt è l’approccio più valido – più durevole, giusto, veritiero. Speer, per esempio, può rientrare nel “male banale”? No, il male è banale in quanto è una forma di stupidità politica – l’identificazione, diremmo, come cessione di personalità, e di responsabilità. Speer è forse un “ingenuo”, quale Fest lo ha costruito (ma non lo è: è un opportunista), il male no: è appunto banale, stupido. È la “banalità del male”, per questo straordinario, la lettura arendtiana è vera, oltre che filosofica: lo sterminio fu ordinario. Prevale oggi, con sottile slittamento semantico, la carica retroattiva dell’Olocausto come forma di resistenza, un sacrificio che vale la vittoria, se non vi conduce. Una valenza legata al sionismo, in Israele e negli Usa. Ma in tutte le manifestazioni fu un fatto di ordinaria polizia. Anche la questione del sapere, e della Colpa, si risolve nell’ordinarietà. I lager organizzavano persone ordinarie, centinaia, migliaia, milioni di poliziotti, soldati, impiegati civili e delle imprese di servizio, edili, chimiche, meccaniche, ferrovieri, guardie, ausiliari, fornitori, coi loro congiunti, le foto ricordo, il privilegio d’imboscarsi, meglio il campo che il fronte, gli scatti d’anzianità, le promozioni a caporal maggiore. Senza obiezioni di coscienza, senza un rifiuto tragico, rivolta, depressione, follia, suicidio.
Ma di più c’è, non detto, il dramma personale di Hannah Arendt, un’ebrea tedesca che era poco ebrea ma non poté essere, come avrebbe voluto, tedesca. Bollata nella Israele di Ben Gurion, che il pocesso Eichmann aveva voluto a pilastro dell’identità nazionale, “la Rosa Luxemburg del nulla”. Per essere incappata nello stile New Yorker, il brillante sbrigativo. Ma più per bontà. È per bontà che i tedeschi che bruciavano gli ebrei rappresenta senza passione. Facendo loro torto. È vero che il male è banale, alla portata degli scemi: il filosofo e scrittore Hielscher, rilasciato dopo la tortura, animatore del nazistissimo Ahnenerbe, l’istituto delle genealogie ariane, caduto in disgrazia per aver promosso un sistema “tribale frazionato” medievale contro la modernizzazione di Hitler, trovò i suoi aguzzini seduti alla scrivania dietro le scartoffie. Ma i tedeschi non sono scemi.
La banalità del male è concetto di Bernanos, della guerra civile spagnola. Hannah lo fa suo in uno strano modo, anche di essere ebrea. In Bernanos angoscia: che il male sia comune fa paura. In lei è quasi una difesa, tra la chiamata di correo che allevia la colpa e la banalizzazione del reato. Ciò nasce dal fatto che Eichmann è niente, un contabile – e che molti capi delle Comunità ebraiche lo erano: Eugenio Zolli, il rabbino di Roma che si battezzò, ne dà attestato straziante, di vanità e superficialità. Per il fascino del numero, che fa molto tedeschi – il numero come tanti altri ingredienti – gli ebrei. Mentre l’Olocausto è storia di mille storie, di milioni di storie, di bambini strappati alla famiglia, di uomini e donne strappati alle case, uno per volta, con schieramento di carri, moto, mitra, cani, con frastuono di urla, latrati, invocazioni, lacrime, mancamenti, alle luci dell’alba o nelle tenebre della notte, assalti ripetuti migliaia, milioni di volte, per settimane, mesi, anni, rinnovati a ogni campo di smistamento, a ogni stazione ferroviaria, a ogni campo di sterminio, a ogni appello nel campo, la mattina, la sera, la notte. È questo l’orrore, che tutta questa sofferenza si lascia cancellare da numeri, regolamenti, organizzazioni, percentuali.
Non è però immaginabile che la scienziata politica Arendt non vedesse la differenza tra le due diverse banalità. E dunque che ha voluto dire? La compassione, se non l’amore, per la Germania. La madre – la “madrelingua” di una sua famosa intervista. O il disprezzo. O tutt’e due, un atto d’amore disperato, con rabbia. Hannah visse gli ultimi giorni della guerra, e la verità dei campi, sgomenta per la distruzione della patria tedesca, contro l’esaltazione dei vincitori e il morgenthavismo, la riduzione della Germania a campo sterile. È su questo sentimento che codificò il totalitarismo, la nuova categoria politica dopo la classificazione di Platone. Che è anzitutto un atto di fede. Il nazismo dichiarando antieuropeo: “L’umanesimo, la cultura europea, lungi dall’essere alle origini del nazismo, vi era così poco preparata, così come a ogni altra forma di totalitarismo, che per capirlo e tentare di venirne a capo, né il suo vocabolario concettuale né le sue metafore tradizionali possono servire”. È voglia di credere: il male radicale può non essere banale. Ma è vero che l’ideologia conta poco nel totalitarismo. Conta in democrazia, dove provoca danni, nei regimi distruttivi la distruzione conta più delle idee. Avesse Hitler eliminato tutti gli ebrei, non per questo la sua politica di annientamento si sarebbe fermata.
È vero, Hannah Arendt qui tradisce. Apre una fessura nell’ebraicità unica. Non isolata, faceva anzi la grandezza della diaspora vigile, socialista. Per essere la condanna d’ogni nazionalismo esclusivo, o primato – per ultimo d’Israele, anch’essa a suo modo antisemita: il popolo paria che si teneva saldo nella diversità e l’intima intesa, ora che ha un Parlamento e l’esercito se ne serve per frazionare le identità del nemico, e imporre lo Stato confessionale e lo sviluppo separato, altrove detto apartheid. Infelice incolpevole. L’assimilazione non piace più, ma bisogna saperlo: Hannah Arendt sancisce, indirettamente, l’impossibilità d’essere tedesca e illuminista.
C’è poi il nodo della legalità in Germania. A destra come a sinistra, nella Soluzione Finale e nella Novemberrevolution. La Corte Suprema del Reich trovò che gli atti di governo dei consigli rivoluzionari degli operai e dei soldati erano del tutto legittimi, tra novembre 1918, quando la monarchia si dissolse, e febbraio 1919, quando la costituente fu eletta. La Germania è il paese della legalità, si sa, lo Stato burocratico. Max Weber ci ha fatto ampi studi. Carl Schmitt ha in tema sei pagine magistrali nella furba autodifesa alla sua Norimberga: “Una burocrazia completamente funzionalizzata può condurre a simili fenomeni abnormi nel momento in cui esiste una concentrazione totalitaria del potere”. L’esecuzione da parte degli altri burocrati di atti infami, idioti o folli senza essere criminali. La legalità è tenuta in altissima considerazione. Quando nel 1938 Hitler sancì l’incompatibilità delle cariche tra Stato e partito, quasi tutti scelsero lo Stato, anche tra i nazi ferventi. Ma non è vero che i tedeschi obbediscono. Sono anarchici tanto quanto culi di pietra. La Germania, per esempio, non ha mai osservato un trattato sottoscritto – è tutta qui la crisi dell’Unione Europea (e in prospettiva dell’Occidente, se esso è la Nato, l’alleanza atlantica).
Hannah Arendt-Joachim Fest, Eichmann o la banalità del male, Giuntina, pp. 214 € 14
Featured image, Eichmann in prigione.
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