Proseguiamo con Lorenza Ghinelli, La colpa, le recensioni dei candidati romani al Premio Strega.
Recensione di Luisa Badolato
Non c’è pace per Estefan, Martino e Greta, straziati nell’infanzia da orrori incomprensibili allora e per sempre. Estefan a diciannove anni non può dimenticare la notte in cui suo fratello neonato morì e lui era lì, impotente, forse colpevole, pensa a volte arrovellandosi in un dubbio atroce che gli fa travisare la realtà e fare incubi a occhi aperti in cui la sua mamma è un mostro che vuole aggredirlo e lo scivolo su cui giocava da bambino nasconde una voragine pronta a inghiottire.
Martino ha l’età di Estefan, sono amici, li accomuna la rabbia nei confronti degli adulti che non capiscono e non sanno più accarezzare il dolore profondo che troppo presto ha strappato i loro bambini ai giochi tranquilli ignari della colpa. Mentre vivono la loro adolescenza, gli amori e i disamori dell’età, Martino ed Estefan lottano con il terrore di trovarsi vivi, come in un’allucinazione, mentre il peccato non concede tregua ai pensieri e la colpa vuole la rivincita in termini di certezze che si sgretolano e sogni frantumati.
Greta è per Estefan una “bambina primavera”; la conosce un giorno mentre corre nel bosco come fa di solito quando vuole scappare da tutto. Lei vive col nonno in un casolare con la stalla e il pollaio, la madre è morta mentre la partoriva e da sempre Greta si è persa dietro al desiderio di dare un volto ai suoi pensieri bui, cerca le foto, un’immagine che le restituisca il passato. Ama accudire il suo cavallo, Perla; ci giocava con Estefan nella notte fatale in cui fu costretta a guardare in faccia la morte.
In un quadro fosco di pensieri angoscianti e paure vuote di appigli e senza confini, nascono e si consolidano amicizie lunghe una vita o pochi giorni che bastano a carpire il segreto comune, la voglia di cominciare a vivere e a sognare mondi caldi e senza distanze affettive: «“Giuro che ti starò vicino. Te lo giuro”. Non è certo che la bambina abbia sentito, né che abbia compreso, persa com’è nei suoi paesaggi desolati. A lui non è concesso perdersi, non quella sera. Magari il giorno dopo potrà dormire fino al Giudizio Universale, in cui sarà condotto davanti a un plotone implacabile fatto di Mamme, nonni e fratelli». In nome del tacito patto dell’amicizia i ragazzi sembrano dimenticare le regole e i doveri, soccorrono l’amico ad ogni costo, si difendono a vicenda, si danno coraggio, ma la cappa di angoscia in cui sono cresciuti non li abbandona, spesso li soffoca, li azzanna come un cane che nemmeno nei sogni è inoffensivo, morde gli indifesi, e quelli che si perdono in un pericoloso e autodistruttivo gioco del sé: «Sta giocando a quel genere di gioco da cui non è facile tornare indietro. Non a nove anni. Non da solo. Non in quella camera del cazzo. […] E se mi fossi accorto che stava male? E se e se e se. Ed è già oltre. Ed è già troppo. Perché non sa più chi è né di cosa è capace. Teme i buchi neri, Estefan. I buchi neri della mente. Quelli che al telegiornale nella cronaca nera chiamano raptus, o follia. Quel genere di buchi neri teme Estefan, e gli stanno staccando la testa a morsi».
Il fuoco e la violenza di sentimenti come la rabbia, l’amore, l’amicizia sono espressi dalla Ghinelli in quadri lirici molto ricercati ma non sempre intensi e coinvolgenti: spesso l’artificio e la tecnica traspaiono dietro arditi accostamenti verbali un po’ barocchi e vuoti: «Dalla tasca dei jeans tira fuori un sacchetto generosamente farcito di marijuana»; «ogni tanto un sentiero di ghiaia lancia un’ancora allo sguardo. Separa le cose, pettina il caos»; «una strada provinciale che taglia Rimini fino a Verrucchio, un cesareo da cui gli automezzi abortiscono gas di scarico perenni»; «quello che si crea, in attimi come questo, è un embolo di favola nel cervello tumorale del mondo»; «il respiro è un riparo. Crea un embolo dentro la chiesa. Un embolo che fa saltare il senso delle cose e permette al tempo di passare».
La ripetitività di certi inserti descrittivi non sempre è efficace anche se soprattutto nell’ultima parte del romanzo sembra diventare una cifra stilistica; la nota dominante spessissimo è la puzza, come in questi e in molti altri casi: «Una pozza palustre che puzza e stagna»; «Estefan sente puzza e non è il cesso. È puzza di maelström»; «la tromba delle scale è sempre pulita, ma nonostante questo puzza di piscio di gatto»; «l’odore giunge, ma il cervello non registra alcun tipo di puzza»; «nessuna puzza d’incenso e nemmeno di legno».
Nota sull’autore:
Lorenza Ghinelli è nata a Cesena nel 1981. Si è diplomata in grafica pubblicitaria, fotografia, web design e montaggio digitale. Si è laureata in scienze della formazione con una tesi sull’autobiografia nelle relazioni d’aiuto. Ha conseguito poi presso la Scuola Holden di Torino, il Master in tecniche della narrazione. Ha scritto Francis degli specchi e nel 2010, insieme a Simone Sarasso e Daniele Rudoni, ha pubblicato J.A.S.T.(Marsilio). Il suo primo romanzo è Il Divoratore (Newton Compton 2011), oggetto di un’asta per i diritti internazionali alla Fiera di Francoforte e i cui diritti di traduzione sono stati venduti in sette paesi. Attualmente vive a Santarcangelo e dal 2009 collabora come editor e sceneggiatrice per la Taodue.
Per approfondire:
leggi l’intervista di Leonardo Jattarelli a Lorenza Ghinelli su Il Messaggero
leggi la recensione di Ranieri Polese sul Corriere della Sera
leggi la recensione di Franco Pezzini su Indice dei libri
Lorenza Ghinelli, La colpa
Newton Compton, 2012,
pp. 256, euro 9,90