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“La compagna di classe”. Un racconto di Luigi Salerno

Creato il 21 febbraio 2011 da Lucianopagano

“La compagna di classe”
di Luigi Salerno


“La compagna di classe”. Un racconto di Luigi Salerno
Rientrare di sabato nelle luci delle macchine e le mie gambe che affrettano, perché quando è di sabato non ho più il controllo del tempo e a volte me ne accorgo troppo tardi. Ma in ogni caso devo immergermi lo stesso nel caos del centro per poi ritornare subito. Rientrare con le strisce pedonali ingabbiate dalle ruote e la scaltrezza di un cattivo atleta, poco allenato nello scansare gli ostacoli fiammanti. Il fumo dei motori e le mie bottiglie che rischiano di sbattere e di infrangersi. Il mio passo accelera, e allora riesco a raggiungere il tratto meno illuminato e più tranquillo. Il solito marciapiede. Le pizzerie sfornano e infornano, come bocche di leoni accecanti. Le ragazze con i capelli sciolti. Qualcuna con la coda alta che mi sorride; e i profumi dei corpi con quelli delle sigarette. Allora affretto, ancora, anche se in fondo non ho nulla da fare. Ma è quella mia città che mi attira e mi respinge e anche quei visi che si organizzano la sera e che cominceranno a cenare quando starò già dormendo, adesso mi mettono un’ansia profonda e nel passo quest’ansia si scioglie e così raggiungo casa nella metà del tempo. Sfioro con le mani le chiavi dall’esterno del borsello grigio, ancora prima di impugnarle, -perché ricordo sempre di non anticipare mai le mosse prima del tempo. Devo abituarmi a estrarle quando il cancello mi attraversa appena le ginocchia, e non prima. Stasera sono fredde le mie ginocchia. Tintinnano chiavi, bottiglie e ginocchia, in una sola consonanza. Rintocca lo scatto della chiave, ma c’è una macchina che attira la mia attenzione, prima che io chiuda. Mi giro per accostare il cancelletto e per evitare il tuono del metallo, quando scorgo due figure magre e romantiche, in un’ auto bianca che non ho mai visto prima, proprio accanto al mio cancello, quello grande delle macchine. Il motore acceso. I loro visi sono lontani e sepolti nel fumo dell’abitacolo. Forse è la donna che sta fumando, ma non ne sono così sicuro, che mentre accosto per non sbattere, gli occhi della coppia si posano sulle mie mani e poi risalgono insieme sul mio viso, stupito e curioso, prima di andare. Ma tanto non li conosco. Forse ho un’aria troppo agitata, un’aria che desta spettacolo. Guardo le luci della mia finestra, che sono spente. È strano, perché mia madre a quell’ora dovrebbe essere già su, o forse avrà acceso dalla stanza che affaccia dall’altro lato. Intanto apro il portone interno e dimentico di colpo quel poco dei loro visi, così confusi. Il suono moderno del motore è ancora presente, romba come quelli dalle cilindrate importanti e non ho nemmeno visto il tipo di auto. Salgo e rientro in casa. I termosifoni sono spenti come le luci, e dentro non c’è nessuno. Nemmeno un messaggio, eppure quello è l’orario della cena per una madre così abitudinaria come la mia. Allora riscendo, e trovo ancora la stessa auto, e cerco di trovare una soluzione: andare da mia sorella, che è di fronte, e vedere se mia madre sia finita lì. Elvira non ha telefono, è isolata da due giorni, e allora mi tocca citofonare. La coppia che mi guarda ancora, mentre attraverso, poi non ci faccio più caso. Forse aspettano la ripresa di un bacio o di un litigio e io li avrò interrotti. Elvira mi risponde al citofono, con la bocca piena. Ormai è l’ora di cena o ancora oltre, e mi dice che mia madre non è proprio passata e che probabilmente avrà preso il pullman e starà sepolta nel traffico del sabato. Cerco di tranquillizzarmi, tirando il fiato a più riprese. Immagino il tragitto della linea che si avvicina alla nostra strada; le luci dei nostri lampioni, i fari dell’auto che si spengono. Alzando la testa noto che Elvira ha già abbassato tutte le tapparelle. Mi ha solo detto di farle sapere qualcosa e di non preoccuparmi. Intanto salgo sopra e manca la luce, proprio mentre sto apparecchiando la tavola per due. Mi affaccio per vedere quante case siano rimaste al buio e quanto sia serio il guasto. Guardo l’ora e noto che il tempo scivola e lei ancora non ritorna. Anche Elvira sarà senza luce, ma non voglio allarmarla. Con il buio ogni cosa si allarma, come in un furto d’auto. Il cancello è elettrico, se voglio prendere l’auto e andarla a cercare non posso più farlo. Scendo lo stesso, lasciando la tovaglia a metà sul tavolo di marmo ghiacciato e allarmato. Le scale allarmate a più gradini, riesco ad aprire il cancelletto pedonale con la chiave. I due sono ancora nella stessa auto, ancora immobili. Ormai non mi fanno quasi più effetto. Mi guardo intorno, tentato di avviarmi a piedi e da solo alla sua ricerca. Elvira non può avvertirmi di niente, è sopra con i bambini. Se fosse successo qualcosa dovrei sbrigarmela da solo e arrivarci sempre prima io. Come avviene con le buone notizie, anche con le cattive: c’è chi si espone sempre per primo, perché ha maggiore raggio di azione; forse maggiore resistenza, scaltrezza e autonomia in certe dinamiche o una certa maledizione nel cuore o nel destino. Così mi avvio, senza meta, senza telefono. Sperando che spunti un taxi con la sua mano che batte il vetro e mi saluta o forse la sua sagoma a piedi, sul primo tratto di curva, prima dei due pini. Con la sua solita andatura baluginante, le buste piene attorcigliate alle sue dita. Scorgo appena delle ombre, ma poi non c’è più nessuno, e sono passate già le nove e non ricordo nemmeno se mi abbia detto qualcosa prima di scendere. Cerco di ricordare e intanto oltrepasso la prima striscia di negozi già chiusi. Mi guardo bene da ambo i lati, prima di attraversare e ancora ricordando a vuoto, e poi rallento. Perché il traffico scema e allora quelli più violenti alla guida corrono come matti e finisce che poi ti falciano se non stai attento. Ci sono i lampioni muti, quando attendo ancora e il tempo passa e quasi non me ne accorgo. Quando mi si accosta al fianco destro, quella macchina bianca con i due romantici; quella che poco prima era parcheggiata davanti al mio cancello. Mi giro di scatto, e proprio in quel momento l’uomo che guida abbassa il finestrino e mi guarda. Tira piano di fumo, -è solo lui il fumatore- e poi mi parla. La donna seduta al suo fianco è tutta annebbiata dal fumo della sigaretta. Deve essere una di quelle sigarette forti, e intanto mentre l’uomo mi parla non riesco a sentire bene quello che mi dice. Scorgo appena il viso della sua forse compagna, che si abbassa e un poco si storzella per guardarmi meglio. Mi parla solo lui, ma in una lingua oscura e incomprensibile. Forse nemmeno italiana e nemmeno europea, troppo lontana. Sarà perché sono agitato ma non riesco a cogliere un senso definito da quello che l’uomo mi dice. Soltanto il suono. Il suono caldo e opaco della sua voce folta di vino, quello soltanto è chiaro, anche se le sillabe non mi ricordano nessuna sequenza logica. Quel suo suono invece mi incute una strana calma e poi, quando le spire del suo fumo si dipanano nelle strade, ormai sempre più libere, emerge il profumo speziato della sua compagna e parte del suo viso. Dall’abitacolo soffocante, la sua figura femminile che si ricompone nelle le luci della radio. La radio ha una frequenza disturbata. Scorgo un suo ginocchio scoperto, da una gonna scura. Cerco di sviare da quel contatto e guardo l’uomo. Lo guardo fisso come prima mi ha guardato lui, adesso che ha finito di parlare e aspetta solo una mia risposta. Che non ho. Cerco di sforzarmi, sia per trovare qualcosa da dire, che per comunicarglielo. Intanto mi accorgo di aver dimenticato l’assenza di mia madre, in cambio della loro inquietante presenza. L’uomo mi guarda, la sigaretta adesso l’ha già spenta. Io comincio a ripensare a tante cose, che mi allontanano ancora di più dalla possibilità di lanciargli un segnale di risposta, ma mi allontanano anche dal pensiero di mia madre e della sua assenza. Penso al fatto che forse quei due al cancello aspettavano me e che erano due malfattori che stavano cercando di rapinarmi con eleganza, senza violenza, forse per non rovinarsi la piazza. Siamo in silenzio, tutti e tre. La donna e i miei occhi che adesso tremano nei suoi, quando si allungano verso di me o su di una direzione di penombra parallela che non ricordo più, quando le sirene gonfiano i polmoni per il black-out, e intanto mi accorgo che la loro attesa mi inquieta ancora di più e che forse mi tocca lanciargli un saluto sfumato e ritornare indietro. Semmai da Elvira, mia sorella, con i suoi bambini che saranno crollati di sonno e di buio sul tappeto rosso del soggiorno. Ma senza luce non penso che possa aprirmi o forse sì. Potrei chiamarla a voce dalla strada e dirle che sono preoccupato. A quei due salutarli in inglese, o meglio alzando un braccio, sorridendo. Capiranno che non riesco a capirli, che di certo nemmeno loro capirebbero me se io gli parlassi, e intanto cerco di articolare un qualsiasi segno di saluto, che mi sganci dalla loro morsa, quando la donna mi chiama per nome. La macchina è ancora accesa, mi dice “Ottavio”, così ben scandito, da lasciarmi perplesso per il calore confidente e familiare della sua voce quando entra nel mio nome. Un nome detto da una che mi conosce e che forse mi ha già chiamato altre volte. Forse perché quando chiami un nome che hai già chiamato, la tua voce si trasforma, si fa più calda e l’altro che è chiamato riesce a sentire che esisti da prima, perché quel tipo di inflessione, nel breve spazio del nome, è la stessa delle persone che ti conoscono, che ti amano, che ti sopportano o che ti odiano di nascosto e senza dirtelo mai, ma che in qualche modo sono finite o dirette dentro la tua vita. Abbasso la testa, scavalco quella dell’uomo, che intanto ne accende un’altra, e poi la fisso. Le chiedo se mi conosce, perché quella sera non sono stato chiamato da nessuno nei pochi minuti della loro presenza e del mio rapido passaggio. La donna mi guarda, con una calma profonda nello sguardo. Aspetta anche lei qualche segnale, non rispondendo però alla mia domanda.
Forse nemmeno lei conosce la mia lingua. Conosce il mio nome ma non la mia lingua, -questo potrebbe essere ancora possibile. Insisto, mi faccio ancora più vicino. La stazione radio si assesta e suona una canzone americana, mi pare When i fall in love di Nat King Cole, e l’uomo chiude gli occhi e le posa un palmo sulla coscia e il vestito un po’ le sale e attendiamo ciascuno uno stacco di luce. “Sali, Ottavio”, mi dice la donna, “sali che parliamo in auto”. Fa freddo e non c’è luce, e a quel punto non mi rimane che approfittare per farmi accompagnare all’ospedale più vicino o al commissariato, che la mia macchina è bloccata nel garage con le porte automatiche. Ma forse è ancora troppo presto per il commissariato. Con l’ospedale avrei almeno escluso il peggio e allora faccio il gesto impacciato di entrare dentro. L’uomo mi accompagna appena lo sportello laterale posteriore verso l’esterno, senza guardarmi. Entro imbarazzato, ma sono sicuro di fare la cosa più logica. La donna mi guarda e avverto che può capirmi, anche se non so come sappia il nome l’importante è che adesso io ritrovi mia madre. Ci ritroviamo in tre in quell’auto. Il primo pensiero è quello di avvertire mia sorella; di avvertirla ma senza allarmarla e purtroppo non trovo il modo se non quello di raggiungere il suo palazzo. Così dico alla donna di chiedere all’uomo che guida di riportarmi al palazzo di mia sorella, quello così vicino al mio, quasi nel punto dove avevano parcheggiato. L’uomo tossisce, la donna gli parla in un’altra lingua. L’uomo fa subito inversione, senza esitare. La donna mi sorride, poi si gira ancora avanti, abbassa la radio e commenta qualcosa in una lingua ancora più oscura. Osservando alcuni palazzi, abbassando la testa per guardarli meglio, mentre glieli indica allo stesso tempo con un dito. L’altro guida e li guarda appena. Le dico dove farlo fermare. La macchina accosta, scendo e la luce ormai è tornata. Le sirene tacciono, mentre le citofono e la sento preoccupata, che si è fatto davvero tardi e che non è mai successo che la mamma abbia tardato così tanto e senza avvertirci. E intanto mi sento imbevuto anche io di una strana ansia, e non so ancora se dirle che in macchina ci sono due sconosciuti che mi aspettano; così cerco di temporeggiare ancora un poco, valutando in silenzio sul da farsi, fino a quando Elvira non mi chiede di salire sopra, e io le dico subito che è inutile, perché non ha il telefono e che c’è qualcuno che potrebbe accompagnarmi a cercarla e fare molto prima. Qualcuno che conosco bene, cercando di tranquillizzarla, senza fare nomi – che d’altra parte non so. Quando Elvira mi chiede i nomi, io vado sul vago, e le dico che in questi casi l’importante è ottenere un passaggio per il primo ospedale, senza entrare troppo nei dettagli. Ho cercato di balbettarglielo per non farla allarmare, ma lei mi fa notare che io ho una macchina nuova di due mesi e che vuole venire con me. Il tempo di lasciare i bambini alla signora Staffini, la sua vicina che molte mattine li accudisce. E che adesso sarebbe un’emergenza e che allora io la devo aspettare. Non ho scelta, così acconsento. Mi volto e li guardo. Sono rimasti fermi dove erano, guardandomi le spalle tutto il tempo della breve citofonata con Elvira. Adesso mi aspettano nell’auto, me lo dicono i loro occhi spenti, la loro forma dei visi vicini e spettrali. Alzo subito un braccio, in modo svogliato, e li ringrazio, sperando che adesso se ne vadano, e dicendo che adesso è tutto risolto, che la luce è tornata, che posso prendere la mia auto, che è nuova di due mesi, come mi ha appena ricordato mia sorella, e che sono stati molto gentili a riportarmi al palazzo. Tra poco sarebbe scesa Elvira e così saremmo scappati nel mio garage a prendere la mia auto e così l’avremmo cercata per bene, come soltanto due fratelli di sangue possono cercare una madre.
L’auto bianca rimane ferma: cerco di scandire le frasi verso la donna, che adesso ha il viso preoccupato, mentre cerca di tradurre al suo autista sinistro le mie ultime confuse parole, e forse il fatto che sono risaliti e che devono andare senza di me. Non riesco a capire quale sia il problema. Sento solo l’uomo alzare la voce, lo vedo strattonarla per un braccio, anche se nelle ombre dell’auto il polso della donna muove dei bracciali che suonano e rischiarano per qualche istante il buio dell’abitacolo. La donna che comincia ad infastidirsi, si scrolla il braccio avvinghiato dalla grossa mano dell’uomo, comincia a reagire con violenza. Alza la voce anche lei, un breve scambio di battute, ancora più secche e più tese. La donna apre di colpo lo sportello, l’uomo cerca di trattenerla, ma scende di furia e glielo sbatte in faccia. L’uomo rincagnito sputa una bestemmia nel vuoto. Si ricompone, mette subito in moto e scatta lontano, come un lampo secco di temporale.
La donna è rimasta da sola, a pochi metri da me. Non mi guarda, ma si osserva le scarpe e intanto con le mani si aggiusta la giacca scomposta. Adesso sembra appena più tranquilla, come se disintossicata, dalla sua ultima espressione nella macchina, quando mi ero appena girato dopo la difficile citofonata con Elvira. Si ricompone appena la gonna e la giacca, i capelli e poi mi si fa più vicina. La guardo con imbarazzo, attendo che mi dica qualcosa. Io non so davvero che cosa dirle, e mi chiama di nuovo con il mio nome, e mi chiede di portarla con noi, che adesso è rimasta a piedi, e io la trovo una cosa ancora normalissima, una cosa che comprenderebbe anche mia sorella Elvira, e senza troppe inutili giustificazioni. Così la donna senza nome mi rimane passo passo accanto, come un’ombra che segue ogni mio spostamento e senza parlarmi. Il tragitto verso il garage è brevissimo. Lo apro con uno scatto del telecomando, che porto sempre con me, insieme al mazzo di chiavi, la porta scorrevole di sinistra si prende il suo tempo automatico. Entriamo dentro il garage. Raggiungo in fretta la mia auto ancora nuova. La donna rallenta, perché i pilastri le sporcano la giacca, nell’ultimo tratto del corridoio delle auto. Entro in macchina e cerco di mettere un po’ d’ordine; accendo la luce nell’abitacolo, comincio ad aprirle lo sportello anteriore, dimenticandomi di mia sorella Elvira, e lei mi piomba dentro e da soli lo sguardo prende coraggio. La porta scorrevole prende a richiudersi, il mazzo di chiavi è ancora nella tasca posteriore. Non faccio in tempo a recuperarlo anche perché la donna mi ride addosso e si aggiusta la gonna con lentezza. Il tempo che la porta si chiuda del tutto e la luce vada via di nuovo, murandoci, senza speranze.
Le sue risate adesso si mozzano. Nel buio la sento farsi più vicina, ancora di più. Il suo odore, l’odore della sua paura del buio o di quello che rappresenti io dentro quel buio, in quel momento così strano, anche se conosce il mio nome, potrei essere un qualsiasi estraneo pericoloso come sono pericolosi tutti gli estranei o tutti quelli che si accostano a noi per la prima volta al mondo. E allora cerco di rimanerle vicino, e di farle coraggio e intanto mi si avvinghia addosso e sento che le sue mani cercano un approdo, forse hanno freddo e mi stringono e allora la guardo ancora meglio. Dico che vado a cercare la chiave per l’apertura manuale delle porte. Mi tocca accendere i fari, ma non so se raggiungono l’angolo opposto del pilastro dove è sistemato l’arnese di sblocco per l’emergenza. Tento con gli abbaglianti e cerco di capire se riescono a farmi strada ma sono dislocati in un raggio ancora insufficiente. Mi servirebbe anche un accendino, ma mi dice che lei non fuma e che adesso le manca l’aria, e che la luce degli abbaglianti non le basta più. Mi chiede di cercare al più presto quell’arnese, altrimenti si mette a gridare e poi ha la paura dei gatti oltre a quella del buio. Mi chiede se lì dentro si rifugiano i gatti, e che il troppo buio la prende alla gola come quella sua voce così stanca sta prendendo alla gola me. Ma io le rispondo di no: che di gatti lì dentro non ne ho mai visti, anche se non sono così sicuro, ma mi conviene tenerla calma e cercare al più presto di uscire dal bunker-garage. La sento che mi stringe più forte, perché ha paura di rimanere lì dentro, perché teme che i morti si vogliano vendicare di quello che ha fatto, mi dice, e allora comincia a singhiozzare e io non capisco che cosa significano quelle strane cose che comincia a sviscerarmi, con un tono sommesso ma profondo, che mi ferma e non riesce a farmi uscire più dalla gabbia delle sue parole convulse. Le chiedo di spiegarmi meglio, ma non riesce a parlare. Le sento solo il respiro che si fa più pesante o è forse lo sforzo per articolare e allora rimango impiantato vicino a quell’ansia e me ne rapprendo fino a dentro le viscere, cercando di sentire oltre e quanto altro potesse esserci oltre quell’angoscia palpabile e così nera.
Gatti non ce ne sono in quel garage, ma non mi crede come forse io non credo a nulla di lei, tranne al mistero del suo odore e del suo corpo elegante e un po’ francese e malinconico, uguale allo stile del suo viso. Forse avverte dei rumori impercettibili, che io non riesco neppure a cogliere,e vuole dirmi qualcosa, a fatica. Ma così al buio anche le parole perdono orientamento,anche se acquistano peso, che forse avrebbero bisogno di uno spiraglio anche minimo per partire; e intanto sento una sua gamba che mi sfiora e poi il silenzio, che la capsula dell’auto protegge e amplifica, ancora più grande di quello riverberante del garage. Le porte bloccate: saranno quelle la causa del suo affanno, forse la claustrofobia; ma non riesco a chiederle niente. Non farei altro che agitarla, e adesso quella donna mi inquieta ancora di più, perché mi spinge con la gamba e forse non se ne accorge, e intanto mi ritornano a raffica dentro la testa Elvira e mia madre, che sembrano così lontane e sconosciute alla mia vita sospesa di quel momento; soprattutto mia madre, che dimenticavo a intermittenze così rapide. Adesso avverto l’odore di quella donna ancora senza nome, ma era colpa mia che non glielo avevo ancora chiesto, e poi conosceva il mio nome. Ottavio, lo ricordo bene, così mi aveva chiamato, con il tono riposato e cordiale di una che mi conosce bene, forse una compagna di classe, una che ricordava ancora il mio nome lontano, sfigurata o trasformata dal tempo. Eppure stare al buio con quel contatto così silente e invasivo, quanto elegante, mi fa sentire al mio posto, in un posto così misterioso e mai occupato, che avrei quasi preferito che non si modificasse niente di quella strana variante serale, e che il tempo continuasse sospeso e indisturbato a scorrerci addosso e che le sue ginocchia mi parlassero, semmai di dove fosse finita mia madre o la mia vita e in quell’ora così strana del sabato, o della voglia improvvisa di un bacio, da scivolarle sui capelli che le nascondono il viso mischiati al buio del garage, che me la ricordavo piuttosto ordinata, da come la ricordavo alla luce intendo. Come una che forse stavo cercando da sempre, ma che adesso riprende a parlarmi, a fatica; forse perché ha ripreso il fiato giusto e allora i miei pensieri ritornano al loro posto come cadetti, nel forziere oscuro della mia coscienza, quando un richiamo mi risveglia dal sogno di quel reale.
Mi dice che sta un po’ meglio e che adesso vuole parlarmi di qualcosa di importante e che devo ascoltarla senza interromperla, altrimenti non ci riesce. A quel punto mi concentro, le chiedo se ha bisogno di luce, ma lei preferisce così, come a volte alcune donne con l’amore…, e allora la sento più vicina ancora. Più della sua gamba sul ginocchio di poco prima, mentre mi parla di una situazione oscura che all’inizio non riesco a comprendere. Le sue parole sembrano sfuggirmi, dovrei chiederle di ripetere ancora, ma sono troppo preso dallo sviluppo, è come se il punto importante debba ancora arrivare e non devo a tutti i costi distrarmi, quando mi parla di quella stessa sera, in effetti di poco prima che io li avessi visti nella macchina, e mi dice forse di qualche ora prima, forse meno di due ore, – altrimenti sarebbe stato pomeriggio – e mi parla di una donna che si spogliava, in una traversa di via Cervantes. Una donna che si toglieva gli abiti di dosso, davanti a tutti, senza ritegno e pudore. Si alzava la gonna e si toglieva le mutande nere, le aveva viste bene e scopriva anche la pancia e poi si metteva a sedere sul marciapiede e nella stessa inquietudine continuava a togliersi tutto quello che poteva, con uno sguardo smarrito nel vuoto. Se avesse potuto, mi diceva, quella strana signora si sarebbe strappata anche la carne, perché in quei gesti c’era come un’insofferenza profonda, come di oppressione per qualsiasi cosa di proprio costituisse una sensazione viva di contatto. E allora ogni tessuto andava allontanato d’urgenza, quasi a strapparlo, sembrava una donna perduta nelle sue stesse fiamme. Rimango raggelato, me la vedo davanti, come me l’ha descritta, e penso a via Cervantes, alle diramazioni e ai percorsi possibili di quell’ora. Se potesse essere passata proprio mia madre di lì, dentro un sabato qualsiasi di autunno come era quello e poi impazzire, così all’improvviso; e poi ricollegare il fatto che quella donna conoscesse il mio nome, forse l’attinenza con un indizio e lo svelarsi di un segreto terribile, quanto quella sua bellezza purissima e opprimente, che continuava a insidiarmi nelle ombre. Le sue parole mi frenano di nuovo il flusso e allora cerco di capire e lei continuando mi dice che si trovavano di passaggio, con lo stesso uomo di prima, quello che era alla guida di quella stessa macchina, quello stesso uomo sinistro che io non capivo e che non capiva nemmeno lui me, molto probabilmente. Con la loro stessa auto, che avevo visto anche io e nella quale anche io ero entrato per qualche minuto, rallentavano e accostavano. C’era spazio in quella piccola traversa che imbucavano, e rimasero a guardarla, quella donna che apriva le gambe e scivolava le sue mutande oltre le ginocchia e si alzava i capelli, che erano curati. Insisteva col dirmi che sembravano freschi di parrucchiere, di una persona distinta, che adesso faceva allontanare tutti i passanti e creava solo il vuoto e lo spavento intorno a sé, e non il desiderio di un corpo. Quel tipo di svestimento disturbante, era afflitto solo dallo spavento, non c’era altro. Mi diceva che vestiva davvero bene, e anche il cappotto che era spalancato sul marciapiede era un cappotto molto buono, di una signora importante o per bene, che certe cose forse non le avrà mai fatte prima nella sua vita; e anche le scarpe erano alte e io volevo chiederle di che colore fossero quelle scarpe alte, perché anche mia madre portava delle scarpe alte quando usciva ed era una persona molto elegante; e anche il suo cappotto, ma non trovavo il modo di interromperla né la forza di parlarle. Si ferma. La sento fredda nel buio, spaventata. Forse deve ricaricarsi o si è già pentita o ha sentito un rumore. Mi chiede la mano, e la sento tremare forte, come non ho mai sentito tremare nessuno così in tutta la mia vita. Allora gliela stringo più forte, cercando di calmarla; ma è molto difficile essere più forti di un tremore così preciso e ghiacciato, da far tremare e indebolire anche la mia mano, e allora il suo racconto continuava, riprendendo quota, e io cercavo di stare calmo ma non ci riuscivo, e poi pensavo anche a Elvira: chissà se stava ancora ad aspettarmi, ma senza luce avrebbe capito che ero rimasto chiuso lì dentro, e forse era già risalita, a chiedere aiuto o a controllare i bambini dalla vicina, in attesa che la luce ritornasse. Ma in quel momento io non avrei mai voluto che la luce ritornasse. Mi intrappolava l’odore amaro di quel racconto e quello del suo corpo, che prendeva sempre più calore dal mio e me lo toglieva, e che adesso mi era ancora più vicino. Le sento la tempia scivolarmi addosso, e coricarsi verso il mio fianco. Stiamo scomodi, ma riesce a continuare meglio da distesa e adesso le sue orecchie sono vicine alla mia pancia e avvertono meglio il mio respiro, che cambiava a tempo con l’affilarsi delle sue piccole frasi spezzate, come coltelli, quando mi diceva dell’idea che era venuta al suo strano autista, quando la guardò negli occhi e le disse di controllare che non ci fosse nessuno a guardare, mentre se la sarebbe caricata dietro, prendendosela in braccio. “Non sapevo cosa fare, di solito decideva sempre tutto lui e allora, in un momento che non passava nessuno, ero scesa a fare da palo, come mi aveva detto di fare, mentre quello se la prendeva di peso, quella povera matta, e se la caricava in macchina, quasi nuda, sui sediolini posteriori. E io allora, le avevo preso il cappotto che era rimasto disteso e anche una scarpa e piombavo spaventata in avanti, e cominciava a correre forte, e quello stupido che rideva e spingeva sull’acceleratore, e io che non capivo cosa ci fosse di così divertente e dove diavolo stesse mai andando; e poi mi giravo a guardarla, quando quella donna sembrava rapita dal passaggio rapido delle prime luci cittadine dai finestrini e allora sembrava più calma. Aveva la pancia e la schiena ancora scoperte e messa tutta di fianco le si vedeva mezza natica con dei lividi e tutta sporca. La borsa gliela aveva presa lui, forse era convinto che una fuori di testa non è detto che fosse necessariamente una poveraccia e allora cominciavo a capire che voleva ricavarci qualcosa in qualche modo da quell’accidente così triste e io non potevo crederci che potesse arrivare a tanto e mi aveva già scagliato la borsa con l’altra mano sulle ginocchia” adesso riprendendo ad affannare, “e poi mi diceva di controllare che cosa ci fosse e se avesse i documenti, e intanto imbucava una strada secondaria e meno trafficata e molto isolata, una strada che mi metteva paura, come il suo viso, quello perduto della donna che aveva portato in auto, come tutta la situazione. Forse voleva raggiungere qualche luogo nascosto, che non conoscevo nemmeno io e intanto, mentre frugavo nella borsa, la tenevo di profilo. Era ancora scompigliata, ma aveva un gran bel viso e così umano, e allora davvero mi dispiaceva, perché sembrava una persona così per bene e speravo che non avesse mai ricordato il male che le stavamo facendo a portarla via; e in quel momento che sembrava non finire mai io non riuscivo più a frenarlo, e non capivo più le sue intenzioni e nemmeno quello che mi diceva. Intenzioni che forse nemmeno aveva, non riuscivo nemmeno a capire che cosa gli fosse scattato, se era solo per la borsa o per qualcosa di più oscuro e inscrutabile, qualcosa che non avrei mai saputo. Adesso avevo le mani affondate nella borsa e gli occhi sui suoi capelli e poi sul suo naso: un naso così nobile e gli occhi ancora così sperduti e serali, e con quell’unica scarpa ancora al piede la sentivo una donna disperatamente sola, forse sola quanto me. Ma forse non povera, diceva lui, e sorrideva forte e mi guardava, gustandosi in pieno la chiazza lorda del mio spavento. Le avevo preso il documento, era in una piccola custodia arancione di plastica, sfuso nella borsa, insieme alle chiavi. Ma fu in quel momento esatto che l’auto sbandava, per fortuna quel brutto diavolo riuscì a recuperare con una sterzata. Io avevo la cintura, come l’aveva lui, ma quella poveraccia dietro stava tutta storta, senza nessuna cintura, e così sbatté la testa nel vetro, senza romperlo ma così forte da perdere il sangue dal naso e da farsi come nera nera sotto gli occhi e fino alla bocca. Aveva cambiato viso. Ci guardammo spaventati, in quel punto non potevamo nemmeno accostare per vedere che cosa le fosse successo dopo il colpo, e allora lui continuava a correre, ancora di più, forse in cerca di una zona più isolata. Quell’orario era già trafficato, sarebbe stato meglio abbandonarla, morta o viva, mi gridava; io intanto la chiamavo, per capire se mi sentiva, ma aveva gli occhi aperti e più tranquilli, come quelli di una cerva. Ma era fredda, ancora così fredda, quasi come me e il documento mi scivolò nell’auto. In quel momento non pensai più a nulla, alla borsa, a quanti soldi avesse avuto dentro, ma mi girai tutta per sentirle il respiro da qualche parte del corpo, perché si respira un po’ dovunque, uno vivo anche se svenuto dovrebbe in qualche modo pompare, ma invece quella signora non pompava se non quel nero di morte sotto gli occhi, che le dislagava come il trucco sciolto e lui mi diceva che era una matta, e che quella è la fine che fanno tutti i matti prima o poi, e che non era colpa di nessuno, e che aveva trovato una radura nei pressi della strada senza uscita delle tre croci, dove accostò.
Scese, tirò una boccata folta di fiato stirandosi al massimo le due braccia verso la schiena. Poi aprì con calma lo sportello, dopo essersi guardato intorno per accertarsi che non vi fosse nessuno in giro. Così la controllò, con una certa competenza, la stessa che avrebbe potuto riservare a qualsiasi estraneo o creatura animale in difficoltà incontrata durante un qualsiasi tratto di strada. Lo vedevo molto sicuro, e come se avesse avuto già a che fare con quelle situazioni, e allora io guardavo a tratti alternati il suo viso e quello della donna, che si faceva scuro come se abitato da un ragno. Speravo di essermi sbagliata, che fosse solo una mia impressione e un gioco della luce, e invece quell’uomo mi fece segno con la testa che era andata. Il colpo era stato molto forte, molto più forte e preciso dei colpi forti e possibilmente volontari che si possono infierire a qualcuno con intenzioni sinistre. Così forte che ancora me lo sento dentro e io non avevo il coraggio nemmeno di muovermi, che era già buio, quando l’uomo se la prese di peso e la scaraventò in un dirupo profondo e oscuro, forse una mezza discarica abusiva, lasciandola ingoiare dalle ortiche e dai rovi, dove non l’avrebbero trovata per giorni, forse per mesi, perché lì era davvero molto profondo e non ci sarebbe arrivato mai nessuno. La borsa rovesciata, vicino a una sua scarpa e allora lui prese quello che c’era da prendere, una quarantina di euro in tutto, e buttò via il resto delle poche cose, comprese le chiavi. Risalì in auto e scattò via, una molla di fuoco, ritornando verso il centro, appena più sereno. Mi chiese di passargli l’accendino e si mise a fumare con una mano sola e soffiava molto forte il fumo dalla bocca, lo spingeva con un brutto suono di drago. L’altra scarpa della donna, quella che era rimasta in auto, mi disse di buttarla in un cassonetto, che nessuno avrebbe ricollegato. Poi accese la radio”.
Riprende fiato e si allontana da me con la testa. “Perché, perché eravate tornati proprio davanti al mio cancello?”, e mi disse che di solito il sabato si appartavano dove capitava e che avevano deciso di prendere fiato e di rilassarsi e cercare di farsene una ragione parlando, “ma io ero agitata e non volevo restare a parlare; poi sei passato tu e ti ho sentito chiamare dal balcone, forse tua sorella, io ho capito che cercava te, ma tu eri un po’ stordito e allora non capivi, ecco, e poi il resto tu lo sai”.
Rimaniamo in silenzio, raggelati e sfiniti. Il garage immerso nell’oscurità. “Il documento, per favore. Devo vedere il documento”. La donna non si muove, rimane ferma, impassibile. “Non ce l’ho più, il documento. Mi è caduto a terra nella macchina quando quel pazzo ha sbandato, e poi non l’ho nemmeno aperto”.
Non riesco più a muovermi. Intanto la curiosità si fa così grande, o forse avremmo potuto lasciare tutto nel vuoto, nel vuoto di quel momento, e lasciare nella nebbia anche quell’identità, come in fondo era la nostra. In attesa che avessero ritrovato mia madre o che fosse ritornata lei da sola, che in quel caso lì sarebbe stato tutto molto più semplice. Ma i miei dubbi erano sempre più laceranti. In quel momento avrei dovuto sbloccare soltanto la porta e raggiungere Elvira, e chiederle se avesse avuto qualche notizia e allora la lascio nell’auto. Scosta ancora la testa e una volta che io esco, riprende a fatica la stessa posizione. Vagando tra i pilastri, senza riuscire ad orientarmi. Chiedo alla donna di accendermi i fari, che avevo spento quando mi parlava, almeno per orientarmi. Ma lei non mi risponde e allora mi avvicino all’auto. Mi corico verso i comandi e la sfioro, e solo in quel momento ritorna la luce…
In un colpo la donna si ricompone. Io afferro il telecomando e apro la porta automatica. Metto in moto e scatto fuori, e in quel momento vedo Elvira e mia madre che mi vengono incontro, con lo stesso sorriso stampato nel volto. Mia madre che sembra rimproverarci, ma che pare così felice di tutta quell’ansia così grassa e imbastita solo per lei, e che le lascia un gran calco sulla bocca che ride. E poi ci dice che quella era la serata del suo poker e che noi avremmo dovuto ricordarlo, il terzo sabato del mese. E che per fortuna quel gentiluomo dell’avvocato Tassoni, sempre così gentile e premuroso, l’aveva appena riaccompagnata, che era tutto buio anche lì da loro al corso Nelson. Gli occhi di mia madre si posano sul viso sperduto di quella donna, che mi sta ancora vicino e che si sente esclusa e smarrita dalla nostra gioia domestica, e che in un baleno mi saluta, con un bacio sfuggente e si precipita fuori dal cortile, verso la strada. Le grido qualcosa, mi dice che avrebbe preso un taxi, ormai è più lontana e si muove così in fretta, senza voltarsi, quando gli occhi di Elvira e di mia madre mi guardano perplessi, quando ormai la donna è svanita. Mia madre decide di andare a salutare i nipoti, e allora si allontana piano con Elvira. Prima di avviarsi sopra mi chiedono chi fosse quella persona che non avevano mai visto. Io dico una compagna di classe, perché non so che dire e una compagna di classe è una cosa ancora molto tenera e rassicurante da dire, e di una certa nostalgia ancora così ben riuscita e funzionante a quell’ora; e specialmente in una sera come quella e a quell’ora di quel sabato così spiritico, quando ci eravamo ritrovati tutti a dispetto di tutto il resto, e subito dopo il maglio irreale di quell’inferno vivo e così privato, che non avrebbero mai saputo. Intanto chiamo un attimo Elvira e le chiedo se dal balcone quella sera mi avesse chiamato davvero per nome, ma lei nega: quella sera non si era affacciata. Ci siamo parlati solo al citofono, mi dice con sicurezza, che stava cenando e che aveva già abbassato le tapparelle da un pezzo. Le lascio andare vicine e spengo il motore. Poi lo riaccendo e chiudo gli occhi. Nell’auto ancora il suo odore speziato, bellissimo a quell’ora già troppo notturna, quando sono mosso dal desiderio di raggiungerla e di svelarci quell’identità oscura per entrambi, che nonostante il sollievo adesso mi logorava ancora di più.

* * *

Vagai per diverse ore, e non solo quella sera, ma non la rincontrai mai più e nemmeno seppi mai se fosse stata ritrovata una donna in qualche macchia di erbacce selvatiche e di rovi, e nemmeno se qualche scarpa da donna alta e di una per bene fosse sbucata appena sformata da un cassonetto. Non seppi più nulla, perché forse era davvero fatto di nulla quello che quella sera mi era accaduto. Come tutto quello che avviene solo agli altri e che non ci tocca mai direttamente, che non ha a che fare con le nostre relazioni, con i nostri affari di cuore o di morte e con i nomi di persona; con la sfera eletta dei nostri consanguinei o con quella dei nostri piccoli clan solitari e borghesi, e con tutti i piccoli tasselli ordinati della nostra vita e forse con l’ apagoge di quel sabato sera e notturno. Eppure quella donna doveva avere una grande fantasia, o una grande indimenticabile maledizione nell’animo che un po’ mi contagiò e che mi è rimasta ancora dentro anche se mi rassegnai in qualche modo a dimenticarla, come una compagna di classe in controluce, dopo tanto tempo, e pensando così che non fosse avvenuto nulla di tutto quel racconto al buio, e che ne era rimasto solo il suo debole fantasma, soltanto dentro di noi. Quando un giorno di non molto tempo dopo, mi trovavo al solito autolavaggio, e un ragazzo biondo e quasi straniero del personale, scrollandomi il tappetino dal lato passeggero, mi fa cenno con la voce e muove il braccio con un gesto ampio nella mia direzione. Mi giro, e intanto noto che ha qualcosa in mano, un qualcosa di un arancione acceso.
“Che fa, viene lei o glielo porto io?”.
“Ma che cos’è?”

fine

§

Luigi Salerno è nato a Napoli nel ’67, e lì risiede attualmente. Specializzato in alta formazione musicale, con tesi per il secondo livello specialistico, sulla musica classica nel cinema (La musica colta nel fotogramma) conseguita con il massimo dei voti al Conservatorio di Napoli S. Pietro a Majella. Ha ottenuto diverse segnalazioni e premi (Premio W. Ciapetti 2007, 15 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008. Categoria Short Story Racconto Il sole negli occhi.)
Con la Scuola Holden è stato tra i finalisti del Concorso nazionale autori italiani e stranieri “Terre di Mezzo”, 2008. Il suo racconto “il telegramma”, è stato pubblicato da “Terre di Mezzo”. Ha ottenuto il Diploma d’onore al “16 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008”, nella categoria “Short Story” con il racconto “La sassata”.

Con il racconto che abbiamo pubblicato qui su Musicaos.it Luigi Salerno è stato finalista al Concorso OXP 2009, organizzato dalla Casa Editrice legata all’Istituto Universitario l’Orientale di Napoli (2009).

Di recente si è classificato al secondo posto alla II Edizione del Concorso “Festival Libriamo 2009” a Vicenza (continuazione ideale “Sillabari” di G. Parise) con il racconto “La canzone” pubblicato con “La Serenissima”; è stato finalista alla III Edizione di “Libriamo 2010 Vicenza”, dedicata allo scrittore Giovanni Comisso, con il racconto “Fuga dal Medrano”, di prossima pubblicazione.

Ha collaborato con Terra Nullius: “Bottoni”; “On the phone”. Il suo romanzo dal titolo “Il disabitato” è di prossima pubblicazione. Per il teatro ha scritto “Meerschaum” (Atto unico); “L’interruzione di viaggio” ;“La stanza di Fritz”.

Luigi Salerno si occupa di un blog letterario: http://bookandshade.blogspot.com/.
Contatti: [email protected]

(clicca qui il racconto in formato pdf “La compagna di classe” di Luigi Salerno)

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