Su famini de s’annu doxi (la x, in questo caso, ha una pronuncia simile alla j francese). La fame (in sardo, sostantivo maschile) dell’anno dodici. Ancora oggi, persiste nella lingua sarda, particolarmente in quella parlata nella vasta zona agricola campidanese, questo detto proverbiale, ad indicare un periodo di crisi economica o, in modo ancor più iperbolico, il semplice avere lo stomaco temporanenamente vuoto. Il detto fa riferimento alla terribile carestia che si abbatté sull’isola nella primavera del 1812, a seguito di un autunno siccitoso e di un inverno particolarmente rigido che compromisero irrimediabilmente il raccolto del grano. Come se non bastasse, un’epidemia virulenta di vaiolo causò molte vittime, soprattutto tra i bambini. I grandi possidenti approfittarono della situazione per speculare, senza essere minimamente contrastati dalla corte sabauda che dal 1799 al 1814, a causa dell’occupazione di Torino da parte delle truppe napoleoniche, si era rifugiata a Cagliari, nella roccaforte di Castello.
La presenza del Re in città aveva aggravato una situazione già di per sé cronicamente depressa, facendo pesare i costi ingenti della corte sulla popolazione dell’isola. Il malcontento salì fino ai livelli di guardia, tanto più che era ancora ben viva la memoria del biennio eroico, iniziato con la cacciata dei piemontesi (Sa die de s’acciappa) del 28 aprile 1794 e terminato con i Moti antifeudali capeggiati da GIOVANNI MARIA ANGIOY nella primavera del 1796. Tra i personaggi che si erano distinti in quel tumultuoso biennio, vi era un avvocato cagliaritano, Salvatore Cadeddu, nato nel 1747, attorno al quale si era formato un circolo di uomini che si rifacevano all’esempio di Angioy e che usavano riunirsi nella casupola di un piccolo appezzamento che Cadeddu possedeva in località Palabanda, allora zona di orti e rovine romane al limite nordoccidentale della città, oggi centralissima zona residenziale a due passi dall’Anfiteatro Romano, dall’Orto botanico e dagli Ospedali Civile e Militare.
Lo strazio di quel 1812 si sovrappose al malcontento generato dal mancato rispetto della promessa fatta, da parte dei Savoia, di un maggior coinvolgimento dei sardi nei ruoli importanti del Regno. Così, nel circolo di Cadeddu maturò l’idea di pianificare una rivolta che avrebbe dovuto porsi come obiettivo l’arresto del comandante militare Giacomo Pes di Villamarina, per sostituirlo con il sardo Giuseppe Asquer. Secondo gli storici del passato, il piano sarebbe rientrato in un più ampio disegno di lotta per il potere tra il Re Vittorio Emanuele I e il suo futuro successore, nonché fratello, Carlo Felice, ma questa ipotesi non è suffragata da prove sostanziali. Ad ogni buon conto, alla fine di ottobre di quel 1812, Cadeddu e i suoi decisero di mettere in atto il piano. Con la complicità delle guardie, ottennero il libero passaggio notturno tra i quartieri posti ai piedi dell’acropoli di Castello, in modo da accedervi dal punto più agevole, nel quartiere Marina. Oltre alla borghesia intellettuale, capeggiata dai Cadeddu (con il patriarca, i suoi figli, anch’essi avvocati, e il fratello Giovanni, tesoriere dell’Università) e rappresentata da uomini di legge, docenti e studenti universitari e artisti , i rivoltosi constavano di militari, artigiani, piccoli imprenditori, operai e persino uomini di chiesa.
Le cose si complicarono perché la notizia delle trame ordite a Palabanda, non si sa se in modo fortuito o per delazione, arrivò all’orecchio del Re. Così, quella notte i rivoltosi si trovarono al cospetto di un insolito movimento delle guardie sabaude. La staffetta che avrebbe dovuto dare il segnale di inizio dell’operazione si fece prendere dal panico e rinunciò all’incarico, dopo essere stato fermato da una ronda, spargendo la voce che la trama era stata scoperta. A quel punto, i capi della rivolta preferirono non forzare la mano con una sommossa popolare sanguinosa e si ritirarono in attesa degli eventi. Il mattino seguente, il 31 ottobre, il sarto Giovanni Putzolu, vedendo il Villamarina passeggiare tranquillo, si mise in testa di ucciderlo per fomentare una rivolta, ma venne fermato dai compagni. La repressione non si fece attendere: i rivoltosi vennero arrestati e torturati ad uno ad uno, ma nessuno collaborò. Salvatore Cadeddu, rifugiatosi da amici a Sant’Antioco, venne scovato dopo sette mesi, processato e condannato all’impiccagione, cremazione e spargimento delle ceneri. Prima di lui, vennero impiccati il mastro pellaio Raimondo Sorgia e il sarto Giovanni Putzolu. Altri vennero condannati al carcere a vita o all’esilio. In quattro, condannati anch’essi all’impiccagione, riuscirono a fuggire. Tra questi, un figlio di Cadeddu, Gaetano, si guadagnò la stima di Napoleone, ricoprì incarichi diplomatici e si fece apprezzare per le sue conoscenze mediche.
Passata alla storia (scritta dai dominatori piemontesi) come Congiura di Palabanda, la vicenda in realtà ha tutti i connotati della rivolta antisabauda, con chiare caratteristiche politiche e nazionaliste. Come detto, le voci di una regia interna alla corte non hanno trovato alcuna conferma in due secoli di studi storici e appaiono piuttosto come il tentativo dei piemontesi di sminuire le ragioni e i sentimenti che portarono il circolo di Palabanda alla pianificazione della sfortunata operazione.