La conquista dell'Ortigara

Creato il 31 gennaio 2015 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

L’Ortigara è stato il Calvario degli alpini, l’inizio di un vecchio canto di guerra recita:

Venti giorni sull’Ortigara
senza cambio per dismontà:
ta-pum ta-pum ta-pum
ta-pum ta-pum
ta-pum…"

Sulla cima brulla e sassosa del monte, nel 1920, è stata eretta a ricordo una colonna mozza. Per non dimenticare che tra il 10 ed il 29 giugno 1917, tra assalti e contrassalti sugli aridi crinali tra l’Ortigara ed il vallone sottostante dell’Agnella, vennero falciati dalle mitragliatrici migliaia di giovanissimi soldati italiani e austroungarici.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno 1917 l’artiglieria iniziò il suo “ta-pum” contro le linee austriache, preparando l’attacco degli alpini e dei bersaglieri che si sviluppò nei giorni seguenti. I razzi illuminanti cercavano di rischiarare il cielo e l’obiettivo in quelle ore buie e di nebbia fitta, ma il bombardamento preparatorio fu di modestissima efficacia. Le truppe italiane scattarono all’attacco verso le tre pomeridiane del 10 giugno. Anche la nebbia e la pioggia, frammista a gelido nevischio, si erano schierate contro, forse un segno del destino, come un estremo tentativo per farli desistere da un impresa così ardua e giudicata impossibile già sulla carta. Le perdite furono di proporzioni drammatiche. Complessivamente la 52a Divisione perse nella Battaglia dell’Ortigara oltre dodicimila uomini, dei quali quasi seimila, soltanto l’ultimo giorno.

Errori tattici, previsioni sbagliate , manovre che portarono tante giovani vite al massacro e, mentre i comandanti e tutti gli artefici di una delle più sanguinose battaglie mai combattute dall’esercito italiano, si ricoprirono di infamia che difficilmente nessun revisionismo riuscirà mai a cancellare, moltissimi furono gli eroi, i soldati che pieni di ardore caddero combattendo, donando fino all’ultima goccia del loro sangue per difendere il suolo natio.

Scriveva il Tenente Don Luigi Sbaragli, cappellano militare: “Giù il parapetto delle trincee. Ecco i nostri petti saldi e compatti, che rimpiazzano le trincee. Ancora tre minuti. Via i reticolati! Eccoci pronti per la corsa alla gloria. Un bacio al Maggiore, un bacio agli altri ufficiali, un augurio; e gli aquilotti spiccano il volo. Ho come un fremito in tutta la persona… Cominciano a mitragliarci.”

E ancora riporta l’allora Tenente degli Alpini, Paolo Monelli, nel suo celeberrimo “Le scarpe al sole”: “I soldati s’allineano lungo la strada, contro la roccia. Non guardo che facce abbiano: ma sento al di là la tranquilla rassegnazione all’inevitabile. Da quindici giorni si assiste allo stesso spettacolo: escono battaglioni, rientrano barelle e morti, e dopo qualche giorno o qualche ora, i pochi superstiti…”

Una delle testimonianze più toccanti, che ci sono state trasmesse, è quella del Tenente Adolfo Ferrero, del battaglione Val Dora. Ferrero, come tutti i soldati che caddero in quel tragico giugno, non si faceva alcuna illusione. Nella sua ultima, straziante lettera inviata ai familiari affidandola a un attendente, si dichiarò pronto al sacrificio estremo, in nome della Partria.

Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete. Siate forti come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto in guerra non è mai morto. Il mio nome resti scolpito nell’animo dei miei fratelli; il mio abito militare, la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa.”

La lettera del tenente Ferrero non fu mai consegnata ai familiari e fu ritrovata solo pochi anni or sono, conservata nei resti del suo povero attendente. Leggere le sue parole, i saluti ai genitori e la sua rassegnazione, riempie di commozione, fa rivivere gli eventi di quei giorni drammatici, ma è anche e soprattutto una riscoperta dei valori che albergavano nel cuore degli alpini, schietti, genuini, uomini veri.

Furono tanti gli eroi dell’Ortigara, ne riporto qui il ricordo di uno per tutti, un alpino dimenticato e per il quale non è stata eretta eretta nessuna stele, né è stata affissa nessuna lapide sull’Altopiano, eppure è proprio in questo luogo che egli offrì la sua giovane vita alla Patria.

Gli ordini erano quelli di conquistare la Cima di Puntale onde poter rientrare in possesso delle posizioni perdute e necessarie a evitare lo sbocco in pianura delle truppe nemiche, alle spalle dell’esercito italiano. Si trattava dunque di evitare la catastrofe, così il 10 giugno del 1917, per lui e per tutti gli alpini fu il giorno della cieca obbedienza e del sacrificio. Sotto il fuoco del nemico dovevano scendere di corsa le pendici occidentali del monte, oltrepassare il Vallone dell’Agnelizza e risalire quelle orientali del Monte Ortigara. Oramai pronti, aspettavano soltanto l’ordine di attacco, erano le prime ore del pomeriggio di un giorno in cui anche il tempo aveva mostrato la sua cattiveria e li aveva tenuti in attesa per ore sotto la pioggia. Lui, sottotenente, si manteneva calmo davanti ai suoi: non era la prima volta che sfidava la morte. Aveva già ricevuto encomi e meritato una Medaglia d’argento al valor militare nel maggio del 1915, quando, da poco iniziate le ostilità, si era messo in luce per coraggio e spirito di sacrificio. A dicembre dello stesso anno, durante un’azione notturna, salendo in cordata, una pallottola che lo aveva colpito alla guancia, gli era entrata in bocca ed era uscita dalla mandibola, frantumandola. In ospedale fu un paziente assolutamente poco tranquillo, smaniava di andarsene il prima possibile e, ancora convalescente, alla notizia della morte del fratello Attilio, ucciso sull’Adamello, raggiunse la trincea. Solo la speranza di poterlo vendicare mitigava il suo immenso dolore. Sono molteplici le azioni in cui si distinse: quando, prendendo alle spalle una batteria nemica con un manipolo di Alpini, aveva sollevato da terra il comandante austriaco agguantandolo per la collottola. O ancora quando, al comando del proprio reparto, incurante del pericolo, sotto il fuoco nemico, si era gettato alla conquista del Monte Campigoletti, a sud dell’Ortigara e fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare.

E così via, in atti di eroismo e in azioni spericolate, fino a quando venne il suo giorno. “Vedrete, oggi, come sanno morire gli ufficiali degli Alpini Italiani” disse prima di lanciarsi in battaglia.

Alle 15 del 10 giugno 1917 quando iniziò l’assalto, alla testa dei suoi appariva invulnerabile, correva avanti mentre intorno a lui fischiavano le pallottole, uno ad uno, cadevano i suoi uomini, cadevano i comandanti ma egli avanzava, imperturbabile. Finalmente, dopo cinque tentativi, gli Alpini riuscirono a raggiungere e a prendere la postazione delle mitragliatrici nemiche che li teneva sotto tiro. Il terreno era coperto di morti. Il giovane tenente fu colpito alla fronte e a una spalla ciononostante incitava ancora i suoi con tutto il fiato che aveva in gola gridando: “Avanti, avanti, Alpini della valanga!”. Un’altra palla lo colpì, questa volta al cuore. Egli capì che era giunta la sua ora e con estrema serenità e rassegnazione ironicamente disse: “Chesta l’è chela giosta” (Questa è quella giusta). Aveva ventidue anni appena compiuti. Il suo nome era Santino Calvi.

Ricevette un’altra Medaglia d’argento, questa però alla memoria e ora riposa nel cimitero di Piazza Brembana, suo paese natale, accanto al fratello che aveva con onore vendicato.

Furono giorni di sangue, di dolore, di conquiste e riconquiste, da una trincea all’altra.

Cimitero di noi soldati
forse un giorno ti vengo a trov
à.

Ta-pum ta-pum
Ta-pum ta-pu
m”


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