Sono un indefesso fruitore del treno, pur essendo conscio del fatto di essere seduto su uno dei luoghi più settici del mondo. Mi piace la sua intimità, adoro il fascino discreto dei vecchi “locali”, che uso prendere - a causa di un lavoro sballato cronologicamente rispetto agli altri pendolari - , alle ore più impensate: la mattina tardi e la sera tardissimo. Siamo una decina in tutto il convoglio. C’è il turnista in fabbrica, il docente universitario, la prostituta, il vù cumpra. E il giornalista “di chiusura”. Tutti insieme in un microcosmo che contiene (oltre che batteri sconosciuti e perniciosisissimi) un ventaglio variegato di storie, problemi piccoli e grandi drammi. Il numero dei viaggiatori cambia a seconda della stagione e delle variabili impazzite: sciopero degli universitari, retate delle forze dell’ordine, metalmeccanici in subbuglio. C’è invece una costante, che tutti amano rispettare: il silenzio, l’assoluto e rinfrancate silenzio. Ci salutiamo tutti con un cenno del capo, poi ci tuffiamo nelle letture più disparate o nell’osservazione attenta di ciò che avviene fuori dal finestrino (cioè il nulla ammantato da una fitta nebbia).
Capita, però, che qualche intruso della cosiddetta società civile si intrufoli nel nostro microcosmo, infischiandosene bellamente della consegna del silenzio. L’altro giorno erano due giovani donne di un’avvenenza artificiale che parlavano ad alta voce con un atroce accento emiliano. Erano molto fastidiose, come petulante era il trillio sincopato del loro telefonino che squillava in continuazione. Non abbassavano il tono della loro stridula voce nemmeno quando si trattava di conversazioni private. Io, la prostituta e il turnista siamo stati informati del fatto che una di loro aveva una tresca con un altro uomo diverso da quello con il quale era convolata a giuste nozze, che la stessa aveva fatto sesso non protetto e che quindi poteva incorrere in una gravidanza non voluta (ma comunque stava ingurgitando la pillola del giorno dopo) e che i prezzi delle Beauty Farm erano cresciuti al limite del sopportabile.
Non credo che esistano statistiche su quanti in Italia parlano a bassa voce e di chi, invece, grida. L’impressione è quella che il silenzio (o comunque il rumore moderato) sia una dimensione sconosciuta alla maggioranza delle persone. Provate, come forma di autodifesa, a chiedere a qualcuno di abbassare il tono della voce o addirittura di spegnere la radio quando si è in un luogo pubblico: la reazione che incontrerete sul viso dei casinisti non è rabbia: è sbalordimento. Segno evidente che gli urlatori a) non si rendono conto di urlare; e b) per gli urlatori il rumore è una soave compagnia. Chi chiede loro di fare silenzio fa la figura del rompiballe eccentrico, dell’ombroso nevrastenico, del guastafeste che aborre il frizzante buonumore che è dato (per motivi a me sconosciuti) dal frastuono. Ma il punto è un altro. La leggera malinconia che avvolge il silenzio è visto come un insopportabile affronto. E poi il casino allontana, per sempre, il rischio pericolosissimo del pensiero...