
Il romanzo La Contessa di Lecce di Liliana D’Arpe, edito da Lupo Editore (2012), è un racconto travolgente che si legge tutto d’un fiato. La scrittrice leccese è alla sua prima esperienza letteraria ma sin dal 2000 ha scritto diverse sceneggiature e commedie musicali andate in scena al teatro Politeama di Lecce con gran successo di pubblico e di critica.
Significherebbe sminuire la personalità della scrittrice se ci limitassimo a presentare il suo libro sotto l’aspetto della storia narrata e dello stile narrativo. Difatti, Liliana D’Arpe ha un gran talento ovvero quello di riuscire a far parlare i suoi personaggi attraverso i sentimenti senza mai sconfinare nelle svenevolezze e nella prosaicità che, in genere, tendono a caratterizzare quei racconti imperniati sull’amore, sulla famiglia, sui frequenti sconforti della vita. L’autrice fa vivere le emozioni dei suoi personaggi con cuore di donna e, in effetti, non possiamo ignorare la centralità delle figure di Caterina e della nipote Dalila attorno alle quali tutta la narrazione ruota. Donne, quest’ultime, il cui coraggio e la cui forza d’animo significa in realtà mascherare la propria fragilità interiore che, però, non assurge mai ad arrendevolezza bensì a consapevolezza dei propri limiti e conseguente accettazione del valore dell’amore: fraterno, familiare, carnale, intellettivo. Figure come quelle di Antonio, Remo e Pietro diventano per le donne del romanzo punti di riferimento sui quali poter contare e ciò non tanto per le loro capacità di analizzare e superare le difficoltà che la famiglia dovrà superare quanto, invece, per la loro attitudine a saper confortare donando quell’amore di cui gli stessi uomini sono assetati e bramosi di ricevere. Non a caso, nel prologo, l’autrice conclude con le parole «Era circondata da un Bene [notare la ‘B’ maiuscola, ndr] sconfinato» ovvero dall’amore di tutti quelli che proprio nella famiglia avevano trovato occasione per rinsaldare la loro unione promettendosi, silenziosamente, protezione, soccorso e conforto.
La città di Lecce fa da sfondo all’intero romanzo. È il capoluogo salentino, difatti, a creare le ambientazioni di tutta la narrazione ma, in questo caso, le scenografie non sono i soliti palazzi nobiliari e le solite piazze note ma le viuzze del centro storico formicolanti di vita, di profumi e di colori dimenticati. Tra le case abitate dei pochi rimasti c’è quella della Nzina, nonna di Antonio, la cui figura è imponente e pesante quanto i suoi anni. Nella sua casa, rifugio della fragile Dalila, si respira l’aria della semplicità, della saggezza, delle tradizioni, del matriarcato e Nzina è proprio quella vedova, dura come una roccia e al contempo fragile di fronte alla fresca giovinezza, che ha pronto sempre un buon consiglio: «Nu te llassare mai catiscìare te li pesciu de tie! E quandu pienzi ca ogne causa s’à persa, chiedi ìutu intra de tie! Cu la manu te lu Signore e nu picca puru cu quiddra te li tiauli te rrìa la forza cu ni canti la rasta», dice maternamente a una disperata Dalila. Della città di Lecce Liliana D’Arpe non trascura gli accenni alla sua antica storia ed ecco, con un tocco di fantasia e una punta di magia, che entra prepotentemente nel racconto la figura di quella Contessa – lasciamo ai lettori scoprirne l’identità – la quale, come nella migliore tradizione del romanzo storico-fantastico, diverrà nume tutelare dei Darini ovvero della famiglia di Caterina la cui genealogia affonda le radici proprio in quella della contessa-guerriera.
Le storie si intrecciano, le dinamiche degli eventi si sovrappongono, i personaggi si scambiano costantemente nei loro ruoli, figure femminili e maschili che non si pongono mai in antitesi ma come complementi dell’amore, narrazione quasi spontanea che trascina dalla prima all’ultima parola, capitoli veloci, filo narrativo che non si interrompe mai … in una: Liliana D’Arpe si è rivelata una sensibile e fine scrittrice.
Il nostro augurio è di poterla leggere ancora.





