Ogni estate, dopo una massiccia e rigenerante dose di mare ligure, mi ritrovavo a correre, con le ginocchia sbucciate, tra campi di granoturco abbronzato, rincorrendo un cielo azzurro come la più bella matita colorata. La porta era sempre aperta su quel cortile asciutto e crepato e, assicurata la mia bicicletta salmone sul cavalletto un po’ sghembo, i suoni del tg3 regionale e delle pentole bruciate accompagnavano un cicaleggio quasi assordante. Ogni sera io e il nonno approfittavamo di quell’ora di tregua dalle zanzare per ritagliarci un frammento di giornata solo per noi: andavamo a chiudere le persiane, questa era la giustificazione, ma in realtà godevamo del nostro silenzio, immersi nel tramonto e nei nostri pensieri, così simili nonostante gli anni che non ci hanno mai divisi. Il via vai era un compagno fidato, arrivava la zia, coi suoi vestiti a fiori e le ciabatte aperte, portando sempre qualcosa di buono e reale: ricordo ancora quando rimasi a bocca aperta davanti alle mie prime patate al forno, “ma queste sono patate vere”, affermai come un neonato precoce nel verbo. La nonna era fuori, seduta sotto l’ombra del balcone, e sgranava i piselli, lasciando a me le punte rigide e combattive dei fagiolini; mi raccontava di quando avevano fatto, proprio su quelle pietre, la foto di famiglia, com’era tutta fiera nel suo abito per la festa e non potevo far altro che amarla per questa sua semplicità, così lontana dall’ignoranza con cui sempre si giustifica.
Morano per me è realtà, i nonni per me sono la vita, quella vera e meritevole: hanno coscienza di ciò che si possiede, non hanno mai perso il contatto con le cose e il loro valore, loro sanno cosa significa ESISTERE. Mi sono ritrovata spesso ad invidiare la loro povertà perché, per quanto loro possano avermi insegnato e io abbia cercato di comprendere, nessuno, nato sotto la mia stella generazionale, sarà mai in grado di possedere quella genuinità di consapevolezze.
Ne “Il catino di zinco” di Margaret Mazzantini si parla anche di questo: una nonna, attraverso la sua vita e quella degli altri, ed esperienze così lontane da sembrare fantascienza. Ci crediamo forti e coscienti, appellandoci ad un’istruzione che ci ha semplicemente ingobbiti e resi una massa uniforme; i nonni sono giganti buoni investiti dell’ingrato compito di insegnarci la realtà, ingrato perché il mondo li ha privati dei mezzi e delle condizioni necessarie e combattere contro i mulini a vento non è mai piaciuto a nessuno.
E’ soprattutto per questo che, quando si parla di vendere quella casa, un frammento di me va in pezzi: sarebbe come privarmi della parte più genuina di me, della dimensione infantile in cui mi rifugio quando le responsabilità mi mozzano il fiato, sarebbe come liberarmi di loro e li amo troppo per poterlo permettere.