Di Pyongyang non si parla più, improvvisamente la Corea del Nord non è più notizia. Kim Jong-un, fino a poco tempo fa simbolo del male supremo, ha dovuto lasciare la “casa mediatica” terminando i suoi quindici minuti di celebrità. La minaccia alla pace mondiale, ed al benessere occidentale, è passata; ora si possono lanciare altre notizie, anche se la fine del campionato di calcio è un duro colpo da digerire.
Ma la crisi coreana esiste anche se nessuno ne parla più, e non sembra vicina la conclusione, nonostante i toni dello scontro si siano abbassati. Pyongyang ha infatti ritirato le sue rampe di missili, la cui efficienza resta quindi un mistero, e tra le due coree la tensione si è spostata intorno al distretto nordcoreano di Kaesong; qui le fabbriche sudcoreane hanno dovuto abbandonare ampi profitti dovuti all’utilizzo, sottopagato, della manodopera locale. La Cina ha avuto la sua occasione per mostrarsi conciliante agli occhi del mondo e si allontana sempre più dal regime nordcoreano, mentre gli USA stanno intavolando discussioni con Seoul per smorzare il crescente nazionalismo, bellicoso, sudcoreano. A completare il tutto, dando un tocco di farsa, l’ingresso in campo di una star del basket, Dennis Rodman, grande amico di Kim Jong-un ed impegnato nel chiedere il rilascio di una guida americana detenuta in Corea del Nord.
Ma perché la crisi nordcoreana non fa più notizia? Semplicemente per il fatto che i mezzi di informazione non fanno più giornalismo, ma si limitano a vendere prodotti confezionati usando veline ed ascoltando suggerimenti provenienti dall’alto. A titolo di esempio basti pensare che un quotidiano medio-piccolo ogni giorno riceve circa diecimila notizie da agenzie di stampa, eppure i giornali hanno sempre le stesse prime pagine. L’informazione oggi di fatto usa fonti interne alle istituzioni, e proprio quelle istituzioni hanno interesse a far sì che i media siano strumenti per veicolare l’opinione pubblica. A completare il cerchio, perché di un cerchio si tratta, vi è la popolazione sempre meno capace di usare spirito critico, favorendo così un processo per cui i mezzi di informazione offrono ai lettori/spettatori quello che viene richiesto, ma allo stesso tempo abituandoli a richiedere quello che viene proposto. Un gioco dove i responsabili restano nell’ombra.
Ma un altro aspetto interessante della vicenda è il mito che si è venuto a creare intorno a Pyongyang. Ben lontano dal essere un modello di comunismo, il mito della Corea del Nord è decisamente più mediatico e antropologico. Il regime nordcoreano rappresenta oggi – di fatto – colui che non si arrende, nemmeno di fronte a sconfitta sicura. In un mondo dove il sistema occidentale è sempre più imperante Pyongyang simboleggia l’antiamericanismo, e la volontà di non integrazione, acriticamente. E non è un caso che tra i membri dell’associazione americana che raccoglie gli “amici” della Corea del Nord vi siano nazisti, suprematisti bianchi e fondamentalisti cristiani. Tutti a sostenere un paese che si dice comunista. Ma Kim Jong-un la guerra non l’ha scatenata, e se dovesse scoppiare ora non avrebbe lo stesso portato simbolico; ma questo non conta per chi è alla disperata ricerca di una fede, qualunque essa sia. Il fatto che la Corea del Nord ponga a capo dei suoi sostenitori americani un senzatetto e lo omaggi come nemico dell’imperialismo non fa che rendere ancora più assurda la crisi nordcoreana.
Ma la ricerca di un senso si ha anche nella direzione opposta, ossia nella demonizzazione del regime di Pyongyang. Paragonare Kin Jong-Un a Hitler, ed a Stalin per par condicio, non fa che mostrare come. mentre alcuni hanno bisogno di sentirsi in guerra con la loro realtà occidentale, altri hanno bisogno di sentirsi in pace e di credere di vivere nel migliore dei mondi possibili. Infatti se la Corea del Nord è il cattivo il mio governo è il buono. Pyongyang mette in pericolo le certezze occidentali ed i suoi missili sono puntati verso le nostre auto a rate, poco importa che non si riesca a pagarle. Un Occidente quindi che non vuole accettare di essere in crisi, che preferisce rifugiarsi nel sogno di paesi esotici, ed inoffensivi, ai quali fare beneficenza, sentendosi meno poveri.
Quello che emerge dalla crisi delle due coree, e dalla sua rappresentazione, è un Occidente sempre più passivo, che come nei social network si sente al centro del mondo solo perché un mondo può costruirselo, ma virtuale. Un Occidente che non sa più nemmeno avere un nemico, dove i sistemi democratici sono diventati talmente rappresentativi da essere deleghe in bianco; dove i mezzi di informazione non sono che cinghie di trasmissione veicolanti immaginari, come la guerra ormai diventata, a tutti gli effetti, immaginariamente umanitaria.