“Giuseppe, allora, dimmi chi è Zenone”. Giuseppe, colto di sorpresa, ci pensa un po’ e dice: “Ah, sì, professò, è quello della tartaruga”. “Risposta esatta” direbbe il grande Mike Bongiorno. Perché, in fondo, i filosofi presocratici sono un po’ tutti identificati così, sia dagli studenti sia dagli ex liceali: Talete è quello dell’acqua, Anassimene è quell’altro dell’aria, Anassimandro è già più strano perché è quello dell’apeiron e poi si continua: Empedocle è quello dell’aria e della terra, del fuoco e dell’acqua, Eraclito è quello del divenire e Parmenide è quello dell’essere è e il non essere non è. Ed è proprio qui che entra in scena il nostro Zenone di Elea che Giuseppe chiama “quello della tartaruga”. Perché questa lentissima e invincibile tartaruga, talmente invincibile che neanche il velocissimo Achille è mai riuscita a battere, è passata alla storia della filosofia e della scienza dando filo da torcere a tutti, da Aristotele a Russel. Paradossale? Certo, ma era proprio qui che la “spalla di Parmenide” – come la definisce Luciano De Crescenzo nella sua Storia della filosofia greca che prima o poi farò adottare come libro di testo, almeno Giuseppe leggerà qualcosa - voleva arrivare: a mostrare i paradossi che nascono se si ammette l’esistenza dei Molti e del Movimento.
Cose accadute duemilacinquecento anni fa e passate di moda? Mica tanto. Vincenzo Fano ha appena pubblicato un ottimo libro per la Carocci editore intitolato proprio I paradossi di Zenone che sono quattro – la Dicotomia, l’Achille, la Freccia e lo Stadio - anche se Proclo nel suo commento al Parmenide di Platone riferisce che erano la bellezza di quaranta. E, aggiungo io sottovoce, meno male che a noi ne sono giunti solo quattro perché se ci fossero pervenuti anche gli altri trentasei rompicapi ci saremmo davvero rotti la testa nel tentativo di venirne, appunto, a capo. Qui, sulle pagine di questo giornale, non ho uno spazio infinito per parlare di tutti e quattro i paradossi e mi limiterò a parlare solo del più noto. Dunque, la storia della corsa più famosa della storia del pensiero filosofico e scientifico è questa. Achille e la tartaruga fanno un gara e siccome Achille è veloce e la tartaruga è lenta si decide di dare all’animaletto un vantaggio. Ma una volta riconosciuto il vantaggio, il guaio è fatto: Achille, anche se piè veloce, non potrà più raggiungere la tartaruga perché nel tempo impiegato per recuperare, la tartaruga si sarà mossa e così sempre all’infinito e Achille per quanto veloce non potrà percorrere l’infinito. Lo scrittore argentino Borges in un brano della raccolta Discussione – Metempsicosi della tartaruga - descrive così la gara: “Achille corre dieci volte più velocemente della tartaruga e le concede un vantaggio di dieci metri. Achille percorre quei dieci metri, la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga un millimetro; Achille Piè veloce il millimetro, la tartaruga un decimo di un millimetro e così infinitamente, senza raggiungerla…”. Cosa non diversa da quanto aveva già detto Aristotele nella sua Fisica: “Questo argomento intende provare che il più lento, correndo, non sarà mai sorpassato dal più veloce: infatti, necessariamente, l’inseguitore dovrebbe giungere prima là donde il fuggitivo è balzato in avanti; sicché necessariamente il più lento conserva una certa precedenza”.
Cosa voleva dimostrare Zenone con i suoi paradossi? Che i critici di Parmenide, che non si sa bene chi fossero ma ce ne dovettero senz’altro essere dal momento che il filosofo di Elea affermava l’esistenza del solo Essere-Uno, avevano poco da prendere in giro il suo maestro perché affermando l’esistenza della pluralità e del movimento cadevano in una serie di contraddizioni a dir poco paradossali. Questo modo di argomentare di Zenone è passato alla storia con il nome di dialettica: cosa importante e fondamentale perché il filosofo non enuncia una dottrina ma discute le altre e le confuta inventando di fatto la discussione o dialettica. Platone nel già citato dialogo Parmenide sottolinea l’importanza di Zenone a modo suo ossia con grande chiarezza e vale davvero la pena rileggere il passo: “Capisco, Parmenide”, disse Socrate, “che il nostro Zenone non vuole guadagnarsi il tuo affetto solo per altre cose con l’amicizia, ma anche con lo scritto. Infatti, in un certo senso, ha scritto lo stesso che hai scritto tu; però cambiando direzione, cerca di illuderci che dice alcunché di diverso. Tu, infatti, nel tuo poema dici che il tutto è uno, e fornisci di questo prove belle e buone. Zenone, da parte sua, dice che i molti non sono, e anch’egli adduce prove assai numerose e grandi. Orbene, il fatto che uno di voi due affermi l’uno e che l’altro neghi invece i molti, e che ciascuno di voi due parli in maniera da sembrare di non dire le medesime cose, pur dicendo all’incirca le medesime cose, mi dà l’impressione che i vostri discorsi vengano fatti al di sopra di noi”.
Proprio così, “al di sopra di noi”. Al che “Sì, o Socrate”, rispose Zenone. “però tu non hai colto per intero la verità del mio scritto. Però, come le cagne della Laconia, tu insegni bene e trovi le tracce delle cose dette. Ma, prima di tutto, ti sfugge questo: che il mio scritto non ha affatto la pretesa di essere scritto con il proposito che dici tu, e in modo da renderlo oscuro agli uomini, come se venisse portata a compimento una grande cosa. Ma tu parli di qualcosa di marginale, mentre, in verità, queste cose sono un soccorso al discorso di Parmenide, contro coloro che cercano di renderlo comico, sostenendo che, se l’uno è, ne deriva che il discorso subisce molte conseguenze ridicole e in contrasto con esso. Perciò questo scritto controbatte obiezioni contro coloro che affermano che i molti sono, e contrappone le stesse cose e anche di più, volendo dimostrare questo: che verrebbe a subire conseguenze ancora più ridicole la loro ipotesi ‘se i molti sono’ che non l’ipotesi ‘se l’uno è’, se uno la segue in maniera adeguata”.
Chiaro? Ma, volendo aggiungere qualcosa – e la filosofia è tutta una “aggiunta” a Platone - vale la pena sottolineare che le argomentazioni di Zenone introducono in filosofia proprio l’elemento dell’argomentazione perché la verità non si coglie in base a un’intuizione sovrasensibile o con un intelletto superdotato. E’ vero, allora, quanto dice Vincenzo Fano nel suo lavoro: “Oggi, in un momento in cui varie forme di dogmatismo, non solo religioso, ma anche filosofico e scientifico, prendono piede, il valore liberatorio dell’argomentare va ribadito con forza. E questo lo si può fare in modo eccellente riprendendo in considerazione i suoi paradossi e la loro fortuna”.
Su Zenone di Elea ci sono giunte anche altre notizie. Relative alla sua morte. Spesso i filosofi non fanno una buona fine e muoiono di morte violenta. Insomma, qualcuno li fa fuori. Il problema è sempre lo stesso: se qualcuno dà fastidio va eliminato. E Zenone – soggetto, come si è capito, particolare - di fastidio ne diede non poco. E per una giusta causa: la sua città. Sembra che Elea fosse finita sotto la tirannia di Nearco, che non si sa se fosse il capo del partito dei democratici o il tiranno di Siracusa. Ad ogni modo, Zenone organizzò una bella congiura e finanziò una spedizione armata di aristocratici che, partendo da Lipari, avrebbe dovuto sbarcare con l’oscurità della notte sulla costa italica. L’impresa però non ebbe un lieto fine: Nearco scoprì tutto, lo sbarco avvenne tra le braccia dei soldati del tiranno e il filosofo finì in catene davanti a Nearco. E qui viene il bello cioè il brutto che, però, misura il valore di Zenone ancor più dei suoi famosi paradossi. Già in passato, ad un altro tiranno, Dioniso, che gli aveva chiesto quale fosse il maggior vantaggio della filosofia, Zenone aveva risposto immediatamente: “Il disprezzo della morte”. Era giunto il momento di dimostrarlo. Nearco, infatti, fece di tutto per farlo “cantare” e avere i nomi degli altri congiurati. Ma non ci fu verso. Zenone utilizzò qui lo stesso procedimento della sua dialettica: feci sì i nomi, ma erano tutti i nomi degli uomini e dei politici più legati e vicini al tiranno che li eliminò uno ad uno ma così facendo si isolò e autoeliminò.
Zenone, però, fu torturato orribilmente. E quando la tortura divenne non più sopportabile chiese di parlare a Nearco perché solo a lui avrebbe detto i nomi di complici e congiurati. Quando Nearco si avvicino per udire i nomi, Zenone gli addentò l’orecchio e non mollò la presa fino a quando non fu colpito dalle spade dei carnefici. Ma non morì e fu ancora torturato ma per non parlare si mozzò la lingua e la sputo in faccia al tiranno. Allora Nearco – come racconta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi - capì che non c’era nulla da fare e diede ordine che fosse pestato in un mortaio e ridotto in piccoli pezzi.
Così morì, da filosofo eroico, il secondo grande eleate. Fu davvero all’altezza dei suoi pensieri e dell’idea che aveva della vita e della morte. E’ vero, come disse Giorgio Colli, che anche se ammiriamo il suo coraggio davanti a Nearco, non è detto che, dal nostro punto di vista, la sua posizione aristocratica fosse migliore di quella del tiranno che, pur tiranno, aveva con sé il consenso di una parte del popolo. Tuttavia, è tale il coraggio mostrato che la nostra ammirazione va ben al di là di ogni considerazione di ordine politico. Tuttavia, è bene terminare l’articolo con un sorriso. Antistene il cinico mal sopportava gli eleati e le loro dimostrazioni contro il movimento. Si racconta che un giorno, non riuscendo a controbattere Zenone sul paradosso della freccia, si sia messo a camminare su e giù per la stanza fino a farlo esclamare: “Ti vuoi stare fermo un momento!”. “Allora ammetti che mi muovo” rispose soddisfatto Antistene.
tratto da Liberal del 18 maggio 2012