CARLO RAVAIOLI: “Luoghi Apparenti” (dipinti a olio)
Personale alla Galleria
AmArte in Via Baccarini 20, Ravenna.
Date di esposizione: 15 Gennaio-5 Febbraio 2011
Volessi servirmi di una immagine affermerei che Carlo Ravaioli restituisce infine alla Pittura il territorio che le è proprio e che per tanti anni è stato sottratto ad essa a favore di pratiche a volte, diciamolo, anche abusive. In questi “Luoghi apparenti” che si sono aperti al pubblico il 15 Gennaio, a Ravenna, nella Galleria AmArte ove sarà possibile visitarli fino al 5 Febbraio 2011, prende rinnovato vigore l’Idea del
fare pittura avendo come modello non un canone artistico (la tradizione) ma la Natura: “naturam ipsam imitandam esse, non artificem”, secondo l’aneddoto pliniano che vuole il grande artista alessandrino Lisippo convertito alla scultura solo quando nella bottega del pittore Eupompo Sicione gli si rivelò, in quelle parole, il significato dell’Arte. Si tratta di una scelta stilistica, fatta propria da Ravaioli, che abbiamo già avuto modo di annotare in occasione dell’esposizione dei dipinti dell’Artista ravennate per la Collettiva, allestita in tre città del pesarese (estate 2010), intitolata “Nel pensiero dei luoghi-Visioni di Città”.
La scelta di conquistare la Natura attraverso l’Arte ci porta oggi anche ad osservare il portato della peculiarità introdotta dal Nostro all’interno di quella tendenza estetica che si pone l’obiettivo di ritrarre il Vero non come esso è ma, appunto, come esso appare: la peculiarità di un percorso di ricerca nel realismo (abbiamo scritto, a questo proposito, del Realismo magico di Ravaioli) che assegna tutto lo spazio possibile alla valutazione dell’ambiente, della storia, dell’individuo al fine, però, di rovesciare quell’assunto e addivenire così alla conquista dell’Arte attraverso la Natura.
Nella funzione in questo caso aggettivante del termine apparente nel titolo della Personale di Ravaioli il significato dell’adozione, quindi, non di una semplice operazione mimetica della natura ma di un suo superamento grazie al medium dell’Artista vòlto all’edificazione di un ideale di Bellezza. E non solo: l’illusorietà del dato realistico (l’apparenza della quale l’Artista informa i suoi luoghi) ci consegna un senso ulteriore: quello del prodigio della pittura, come della scultura ancora nella lezione di Lisippo al quale, e solo a lui –dicono i repertori storici-, si rivolgeva per essere ritratto Alessandro Magno, perché Lisippo non raffigurava gli uomini così com’erano ma così come apparivano. Un prodigio che fa dell’azione dell’invenzione –nel senso dell’acquisizione di uno stile e di un contenuto che riconosciamo nuovi, originali, e che impongono attenzione- la sede dell’unica verità possibile: “l’arte accade”, con le parole che il pittore americano J. McNeil Whistler pronunciò –come ricorda J.L.Borges in L’invenzione della poesia- quando ascoltò alcune persone sostenere che l’arte è inevitabilmente condizionata dall’ereditarietà, dall’ambiente, dalla situazione politica. L’arte accade e con essa il suo mistero. Di questo mistero, e della sua percezione, ci dice Ravaioli con i suoi luoghi che evocano, ci avverte l’artista, altro dall’apparenza, uno spazio personale, segreto, nel quale si porta lo sguardo che indaga, perché la poesia dell’esistenza non si perda “nel luogo dove ha sempre guardato per non vedere cosa la muoveva dentro”, come rivela lo stesso Ravaioli nei versi di un suo componimento lirico intitolato “Salomé”. Sono i luoghi di uno sguardo pensoso, analitico e cordiale (nel senso che nasce dal cuore) che non accondiscende a facili scorciatoie e riconosce quello strabismo grazie al quale ci si concede, a volte, di pascerci nell’illusione di una visione consolatoria, ma artefatta, delle cose, della vita. E allora si lasci che il ricordo assuma le sembianze anche di un ospite indesiderato, esplorativo, perché poi “In fondo c’è il sole” (titolo di un suo dipinto in esposizione), lo sappiamo, anche se per ora è celato dall’imponente massa di emozioni che si generano dalla memoria di una esistenza e che si sovrappongono l’una all’altra disordinatamente come i volumi delle case di calce grezza del dipinto nei cui muri si aprono finestre che introducono in stanze a volte segnate dal vissuto –lo notiamo dai rari oggetti: una sedia, un tavolo, lenzuola appese alle finestre, o un fazzoletto posato sul davanzale (“Indizio mancante”)-, altre volte vuote ma recanti sempre il passaggio di chi quelle stanze le ha abitate, nei colori delle pareti, nell’acqua di una vasca (“Allagare il mondo”). E che Ravaioli abbia intrapreso un viaggio nei suoi moventi più reconditi, e nella sua storia e nei luoghi di quella storia, è palesato dagli stretti e alti scalini che, senza soluzione di continuità, uniscono una casa all’altra, lo conducono –e noi con lui- da una stanza all’altra. Per non perdere il filo dei ricordi, per scovare ciò che li tiene indissolubilmente uniti, per ricostruire le ragioni di uno stare al mondo nell’accettazione anche di una distanza da se stesso (perché “devi allontanarti per vedere di nuovo il sole o correre per oltrepassare il confine”, scrive Ravaioli nella poesia L’altro luogo), la migliore condizione, forse, per protendersi -insieme con il bagaglio delle esperienze che, restituito ad esse il proprio significato, si porta leggero come su una nave volante (nel dipinto omonimo: Nave volante n.5)- verso un cortocircuito delle emozioni come quando “mi sono affacciato dietro casa per vedere la fine del mondo/(…) distante dalla strada, dall’umanità che urla, al confine del quotidiano,/(…)” (L’Altro luogo”).
Ecco nei dipinti del Ravennate, nativo di Coccolia, il lirismo di una condizione umana che si lascia ancora una volta sorprendere da una vivificante interrogazione interiore che agisce come un lampo nel buio (“ho visto il controluce apparire all’improvviso dietro a un muro”) che sconquassa i sensi e “non capisci più dove finisce l’ombra e dove inizia il paesaggio, senti solo il cuore ridere e ballare e non esiste un altro luogo” (in L’altro luogo”).