di Matteo Zola e Pietro Rizzi
Il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, ha dichiarato essere “la Crimea parte inalienabile della Russia” accettando di fatto il risultato del referendum che sanciva l’annessione della penisola alla Federazione. Ma quel referendum è valido? e soprattutto, è legale? In altre parole, ha la Crimea il diritto di autodeterminarsi?
Referendum, dubbi di brogli
I tempi medi per la preparazione di una consultazione referendaria in paesi europei non è mai inferiore a 45 giorni, anche se solitamente dall’indizione al giorno del voto trascorre molto di più. Nel caso della Crimea il 6 marzo è stata fissata la data delle consultazioni e cioè dieci giorni dopo. Un periodo incredibilmente ristretto se inoltre si considerano alcuni problemi specifici. La Commissione elettorale centrale di Kiev ha impedito l’accesso alle liste elettorali, di fatto obbligando l’organizzazione ad utilizzare liste vecchie e imprecise. Per superare il problema è stata predisposta una lista aggiunta, vuota, da compilarsi qualora fosse giunto qualche elettore con i documenti in regola: tale pratica esiste anche in Italia, ma solo per casi particolari (membri della commissione elettorale in servizio al seggio, forze dell’ordine in servizio). Nel caso della consultazione referendaria in Crimea tale fenomeno ha assunto un notevole rilievo.
In base alle regole approvate dal Parlamento della Crimea era ammesso al voto ogni cittadino ucraino di maggiore età che avesse dimostrato di risiedere in Crimea, ma in base a numerose testimonianze è stato accettato anche il passaporto russo, di fatto permettendo il voto a persone che non ne avrebbero avuto diritto. Alcune immagini mostrano l’inserimento di più di una scheda da parte di un singolo elettore: ciò suggerisce che non vi siano stati eccessivi controlli per quanto riguarda la regolarità. Considerato il numero della maggioranza di nazionalità russa, prossima al 60% della popolazione, è difficile pensare che un’affluenza superiore all’80% sia frutto di una consultazione genuina. Tuttavia la maggioranza della popolazione della Crimea, al di fuori di queste considerazioni e dei dati poco credibili, era certamente a favore dell’annessione con la Russia.
Il diritto di autodeterminazione
Ma il favore della popolazione è sufficiente? La risposta è no. Nel diritto internazionale il “popolo”, inteso come entità complessa che aspira a diventare indipendente e sovrano, non è considerato soggetto del diritto. Il depositario di tale diritto non è il “popolo” ma è lo Stato e la parola “popolo” ha una valenza puramente enfatica. Si distingue tra autodeterminazione interna (ottenuta dal popolo) ed esterna (concessa dal paese dominante, come nel caso della decolonizzazione). Come ricorda Gian Maria Sisti, in un saggio pubblicato per East Journal sull’autoderminazione cecena, la Dichiarazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 14 dicembre 1960 n. 1514, relativa alla concessione dell’indipendenza ai popoli e ai paesi colonizzati, sancisce
che:
«[…] All peoples have the right to self-determination; by virtue of that right they freely determine their political status and freely pursue their economic, social and cultural development […] All armed action or repressive measures of all kinds directed against dependent peoples shall cease […] Any attempt aimed at the partial or total disruption of the national unity and the territorial integrity of a country is incompatible with the purposes and principles of the Charter of the United Nations […] All States shall respect for the sovereign rights of all peoples and their territorial integrity ».
Insomma, l’integrità territoriale viene prima dell’autodeterminazione in base a quanto stabilito negli Accordi di Helsinki che, all’articolo 1, sanciscono la primazia della sovranità su ogni altro diritto, e all’articolo 3 l’inviolabilità delle frontiere. Sulla base di quanto riportato nella Dichiarazione succitata, tutti i popoli hanno diritto a godere del principio di autodeterminazione, stabilendo autonomamente il proprio status politico, economico e sociale in caso di (a) dominazione coloniale, (b) segregazione razziale e (c) occupazione straniera.
La Crimea non era soggetta a dominazione coloniale da parte di Kiev, anzi ha votato nel 1992 l’adesione all’Ucraina di sua volontà. I russofoni, sostenitori della secessione, non erano minacciati da Kiev e l’abrogazione della legge del 2013 sulla tutela delle lingua minoritarie, tra cui il russo, votata dal Parlamento di Kiev non è stata mai firmata dal Presidente della Repubblica ad interim: di fatto, quindi, quella legge è ancora valida e la lingua russa non è discriminata. L’elemento linguistico, in ogni caso, rappresenterebbe certo un segno del mutato corso politico ucraino ma non sarebbe, di per sé, sufficiente ad accusare Kiev di “segregazione razziale”. Infine la Crimea non era occupata da un esercito straniero.
Insomma, la Crimea non ha nessun diritto ad autodeterminarsi né a secedere poiché, come riportato dall’Onu: “Ogni tentativo finalizzato alla parziale o totale disgregazione dell’unità nazionale e della integrità territoriale è incompatibile con i principi della Carta” che stabilisce il diritto all’autodeterminazione. In base alle attuali norme del diritto internazionale il referendum in Crimea non è valido. La stessa Russia applicò queste norme nel caso ceceno e mai la comunità internazionale, che criticò Putin per la brutalità della repressione, mise in discussione il diritto all’integrità dei confini russi. Oggi la Russia sembra dimenticare che anche l’Ucraina gode di questi diritti.
L’autodeterminazione del Kosovo
I paragoni tra il caso kosovaro e quello della Crimea si possono svolgere su più piani: ideologico, della dottrina politica e della real-politik. Non lo faremo in questa sede, verrà pubblicato a breve un articolo in merito. Tuttavia il caso del Kosovo rappresenta un precedente importante. Quando la Nato, il 24 marzo del 1999, attaccò in modo unilaterale la Serbia di Milosevic bombardando Belgrado, lo fece per “restituire” al Kosovo quell’autonomia che le era stata tolta da Milosevic: non dunque per favorire il disegno secessionista dell’Uck (sarebbe stato illegale, in base a quanto detto sopra) ma per garantire una sostanziale autonomia del Kosovo all’interno dello Stato serbo. I kosovari poi, a differenza dei russi di Crimea, vivevano in un effettivo stato di segregazione. Sappiamo però oggi che quello della Nato fu un intervento condotto per interessi strategici di Washington e la causa umanitaria fu, in buona misura, solo retorica. Da allora però ci si interroga, in ambito internazionale, sui limiti del concetto di autodeterminazione che, stabilito negli anni della decolonizzazione, poco si attaglia ai moderni secessionismi.
Rivedere le carte internazionali
Benché non valide secondo il diritto internazionale, le istanze indipendentiste e secessioniste del Kosovo e della Crimea, come pure quelle di altri paesi, non possono essere ritenute “carta straccia”, né frustrate o rifiutate a priori. Il caso del Kosovo e quello della Crimea mostrano l’inadeguatezza del diritto internazionale. Il “nuovo mondo” che si va delineando in questo secolo non può essere regolato con carte scritte dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Trattati e istituti internazionali andrebbero rivisti: che valore ha oggi, ad esempio, l’Onu dopo che gli Stati Uniti lo hanno di fatto misconosciuto bombardando Belgrado malgrado il parere negativo delle Nazioni Unite? Che capacità ha il Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel garantire davvero la pace? Che senso ha oggi una Alleanza Atlantica iniqua, guidata da un solo paese a beneficio sostanziale di un solo paese, gli Stati Uniti? Organi e trattati internazionali andrebbero riscritti in modo più inclusivo e vincolante, rispondendo alle sfide dell’attuale ordine mondiale. Altrimenti più nulla potrà salvare i popoli dalla barbarie dei potenti e dall’abuso del diritto.