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La crisi nera del caffè centroamericano, a rischio migliaia di posti di lavoro

Creato il 25 aprile 2013 da Eldorado

 

Recoleccion cafe

 

Crisi nera per il caffè centroamericano. Una delle voci più importanti dell’economia della regione rischia una recessione senza precedenti per colpa di un fungo, la roya, come viene comunemente chiamato, ma il cui nome scientifico è Hemileia vastatrix. Un fungo che decolora e si mangia il fogliame e che conta con una lunga storia di disastri ambientali (dal Brasile nel 1972 alla Colombia nel 1981).

L’allarme è partito dal Guatemala, lo stesso paese dove la presenza della Hemileia venne riportata per la prima volta in Centroamerica nel 1982, e da dove quest’anno le particolari condizioni climatiche e gli scarsi controlli hanno fatto sì che si potesse propagare con virulenza anche negli altri paesi della regione. A questo si aggiunge la peculiarità del tipo di pianta del caffè arabico impiantata in Centroamerica, che viene sfruttata oltre ogni ragionevole possibilità e che, quindi, risulta debilitata e facile preda dei parassiti.

L’emergenza ha messo a rischio 200.000 posti di lavoro, una forza occupazionale importantissima per le realtà degli altopiani dove viene coltivato il caffè, realtà spesso al limite della povertà e che dovranno fare i conti, per i prossimi anni, con una seria depressione. I terreni coltivati a caffè, a differenza di quanto si possa pensare, sono in gran parte in mano a piccoli proprietari terrieri e solo l’8% delle estensioni sono proprietà delle grandi aziende agricole. Tutti, poi, impiegano la manodopera locale di comunità di provincia, dove le opportunità di lavoro sono ridotte al lumicino. 

Il caffè arrivò in America Centrale alla fine del XVIII secolo importato da Cuba e, prima ancora, dall’Etiopia e dalla penisola arabica, diffondendosi soprattutto in Messico ed in Guatemala, nelle regioni di Verapaz e del Chiapas. La sua coltivazione cambiò per sempre la storia delle piccole ed allora sconosciute nazioni centroamericane, facendo nascere le prime grandi fortune dell’epoca. La diffusione del caffè come bevanda di successo in Europa e negli Stati Uniti fornì una via d’uscita alla miserrima economia di stampo coloniale degli stati centroamericani da poco liberatisi dal giogo spagnolo generando, di conseguenza, la formazione di un’agguerrita classe di possidenti terrieri. Verso la fine dell’Ottocento il prezzo di un metro quadrato di piantagione equivaleva a quello di un palazzo signorile nel centro di Parigi. Poi, piano piano, le nuove necessità del commercio offrirono a queste famiglie nuove e più vantaggiose speculazioni e la produzione del caffè venne assunta dai piccoli coltivatori. Coltivatori che oggi devono fare i conti con la pressione dei prezzi internazionali, delle bizze climatiche ed ora con il feroce parassita che rischia di affossare le produzioni dei prossimi anni.

Gli effetti della roya si avvertiranno a partire dalla prossima raccolta, prevista per dicembre. Le stime parlano di una riduzione considerevole del numero dei chicchi, una perdita che viene valutata nel 30% del totale. Il tempo di recupero delle piantagioni è stato stabilito in Guatemala –dove è stato colpito il 70% delle coltivazioni- da tre a cinque anni, tre anni in Nicaragua e Honduras (32% di incidenza del parassita), due anni in Costa Rica dove si è riusciti ad avviare (anche se in ritardo) un programma di prevenzione. Le coltivazioni, che coprono una buona parte del Valle Central costaricano, sono state sottoposte ad un serrato piano di fumigazione, al momento reso insufficiente dai pochi fondi disponibili. Si tratta di una soluzione a breve termine, che non risolve però la problematica che richiede invece misure drastiche. La prima di queste misure, presa in considerazione perché risultata vincente in Colombia, è quella di sostituire le attuali piante, del ceppo arabico, con una varietà nuova e più resisente all’aggressione del fungo. Si tratta però di una strategia cara e dispendiosa: i colombiani hanno investito nell’operazione 500 milioni di dollari, una quantità di denaro che difficilmente potrà essere recuperata dai centroamericani.

Qui, i coltivatori chiedono crediti per poter investire ed avviare la conversione, ma finora nè le banche, nè gli istituti creditizi internazionali hanno dato una risposta concreta.  Intanto, solo in Honduras, il piano per affrontare l’emergenza richiederà 80 milioni di dollari una cifra difficile da riuscire a stanziare in un paese al bordo del default e piagato dalla povertà.

Stando così le cose, ogni paese sta valutando l’impatto negativo del prossimo raccolto: 660.000 quintali in meno in Honduras, 500.000 in Guatemala, 200.000 in Nicaragua. Un impatto per il momento circoscritto nei documenti, ma di cui si vedranno le reali e tragiche conseguenze nei prossimi mesi.


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