Fallace sunt rerum species et hominum spes fallunt, scriveva Seneca nel trattato “De Beneficiis”. Le apparenze sono ingannevoli e tradiscono le speranze degli uomini. Un assunto che pare riflettere perfettamente la situazione del premier turco Recep Tayyip Erdogan.
Per il leader dell’AKP (Partito per la giustizia e lo sviluppo) le attuali digressioni diplomatiche della crisi siriana rappresentano una vera e propria battuta d’arresto. L’ennesima dal punto di vista politico, visto che negli ultimi mesi la Turchia è stata attraversata da un’ondata violenta di proteste che hanno evidenziato il carattere semi-autoritario del governo. Un primo e importante ridimensionamento in ottica geopolitica, dal momento che l’attuale caos in Medio Oriente sta ostacolando le ambizioni di Erdogan per la corsa alla leadership regionale, con il conseguente sfilacciamento delle alleanze; basti pensare all’improvisée inaspettata di Putin e Lavrov nella proposta “russa” per la consegna delle armi chimiche da parte di Assad, in cambio della rinuncia americana all’intervento.
Last but non least, come se i contraccolpi degli ultimi tempi non fossero già abbastanza, non va dimenticato che la maggioranza dei turchi, tra cui si annovera un numero sempre più crescente di sostenitori del primo ministro, si sta opponendo in maniera marcata al diretto coinvolgimento del governo nel paventato conflitto siriano. In un recente sondaggio pubblicato dal German Marshall Fund, si legge che il 72 per cento dei turchi ritiene che il loro Paese dovrebbe restarsene fuori dalle questioni siriane.
Ma lo scivolone di Erdogan agli occhi dell’opinione pubblica interna non è soltanto dovuto al suo pressing continuo sull’intervento in Siria. Evidentemente in pochi hanno perdonato alla sua amministrazione di aver perso la candidatura per ospitare le Olimpiadi del 2020, che si disputeranno a Tokyo: non è fatto mistero che, nella decisione del comitato olimpico, abbiano contribuito negativamente le immagini della reazione repressiva perpetuata dal governo turco dinanzi alle proteste cominciate il 28 maggio a Istanbul. Aggiungiamoci pure che il PKK, il gruppo separatista curdo, ha annunciato che interromperà il ritiro dei suoi combattenti dalla Turchia: un segno di evidente stasi dei negoziati tra il governo e il movimento scissionista per terminare il conflitto armato che dura da oltre trent’anni.
Di converso, un intervento militare all’interno della “coalizione di volenterosi” – come l’ha definita lo stesso Erdogan – sostenuta dai maggiori alleati Nato, ovvero Usa e Francia, avrebbe forse mostrato un altro lato della medaglia del governo turco; il look internazionale che il premier e il suo influente ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, intendono promuovere per mezzo di una politica estera umanitaria. E forse, la buona riuscita delle operazioni militari contro lo scomodo vicino di Damasco, un tempo alleato, avrebbe corroborato la posizione del primo ministro sia all’interno che nel mondo.
Ma come non detto. Il presidente statunitense Obama ha annunciato che ritarderà gli attacchi per prendere in considerazione le aperture diplomatiche della Russia; una decisione che ha letteralmente spiazzato Erdogan, scoprendo un’altra manchevolezza nella politica estera del suo governo, che può essere criticata di insofferenza e scarsa lungimiranza. Ora, dopo l’estenuante determinazione manifestata per muovere un’azione militare contro il regime di Damasco, il primo ministro turco è costretto a tornare ad occuparsi del proprio cortile di casa, dove la situazione non si trova esattamente nell’ordine di Nash.
Le ultime proteste che si sono svolte nella città meridionale di Antakya, hanno causato la morte di un manifestante ventiduenne sotto circostanze ancora poco chiare. Tra le ragioni delle manifestazioni, non sono mancate le accuse rivolte al governo nel coinvolgimento in un’eventuale guerra in Siria. L’ennesima grana per Erdogan, che sta chiaramente perdendo colpi e posizioni sia in Turchia che all’estero.