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La crociata va in laguna

Creato il 13 febbraio 2012 da Senziaguarna

di Ezio Savino

L’abile regia del doge Enrico Dandolo dietro la missione del 1204. Marco Meschini ricostruisce, attingendo a tutte le fonti conosciute, le vicende dell’«incompiuta»

La crociata va in laguna

Quadriga proveniente dall'Ippodromo di Costantinopoli - Venezia, Museo di San Marco.

Un filo rosso collega i cavalli di San Marco, la decorazione musiva di San Giovanni Evangelista a Ravenna e uno dei più toccanti mea culpa, officiato davanti al primate dell’ortodossia greca da Giovanni Paolo II, con il suo bacio a una ciotola di terra ellenica, il 4 maggio 2001, al bema, la «tribuna» dell’Areopago d’Atene, quella stessa da cui San Paolo diffuse il famoso sermone sul dio ignoto. Un lato fascinoso della storia è questo suo imbastire legami tra i fatti. Allo studioso s’impone il compito di disseppellire la catena, denudare i ganci, mettere in chiaro il senso. È quanto si prefigge 1204: l’incompiuta. La IV crociata e le conquiste di Costantinopoli, di Marco Meschini.

La crociata va in laguna

La conquista di Costantinopoli - frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna (1216).

La meravigliosa quadriglia di destrieri in bronzo dorato (gli originali oggi risplendono nella galleria interna della Basilica di San Marco) ci portano a Venezia. Simbolo della libertà della Serenissima, vi giunsero da Costantinopoli, dove ornavano i «Giochi dell’Imperatore», alias l’ippodromo. Per mezzo secolo i cavalli, attribuiti all’officina del greco Lisippo, impreziosirono l’Arsenale, poi le arcate di San Marco, finché un altro raffinato predatore, Napoleone, li adibì a superbo decoro del Carrousel, alle Tuileries. Per poco: nel 1815 rimpatriarono in laguna. Ma nel 1204 erano stati il dono personale di un doge alla sua città idolatrata.

La crociata va in laguna
Crociati all’assalto – frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna (1216).

Enrico Dandolo, allora quasi novantenne e per di più cieco, era uno stans («benestante, capitalista»), che per una vita aveva militato tra i procertantes («pendolari», portentosi mercanti, commessi viaggiatori del Mediterraneo), e dunque conosceva a menadito ogni segreto d’occidente e d’oriente. Fu lui, doge guerriero, l’uomo-chiave della quarta crociata, a buon diritto definita «incompiuta». Ardente ideatore ne era stato un papa, Innocenzo III, un esperto del ramo, pronto a usare le armate cristiane non solo in Terrasanta, ma anche contro Marcovaldo di Anweiler in Sicilia, sulla testa dei Saraceni in Spagna e per estirpare l’eresia pauperistica e «pura» degli Albigesi. Predicatori, baroni e cavalieri, secondo uno schema ormai collaudato da tre precedenti spedizioni, già ammassavano uomini e mezzi per il passagium, il transito via mare alla zona operativa, il Santo Sepolcro. Mancava il vettore.

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Guerriero - frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna (1216).

Qui entra in scena Dandolo. Venezia, bruciando sul filo Genova e Pisa, offriva il pacchetto completo (naviglio da carico, galee di scorta, viveri, infrastrutture) a prezzo non certo d’occasione ma, secondo le stime moderne, equo. Il ticket del «contratto» ammontava a quattro marchi per cavallo e due per uomo, un totale di 85mila pezzi, venti tonnellate d’argento, quando il PIL della Francia non arrivava alla metà di quella somma. E quando l’accozzaglia crociata cominciò a chiedere sconti, il doge calò l’asso. Pretese risarcimenti politici e territoriali. Dirottò l’armata su Zara, ricca città ribelle, che fu ridotta all’obbedienza. Era la prima deviazione dall’obiettivo. La seconda, definitiva, fu Costantinopoli. Qui si consumò l’incompiutezza della quarta crociata. Gerusalemme sparì dal piano d’azione, sostituita dalla capitale dei Cesari d’oriente, in pieno marasma politico, e con cui Venezia aveva parecchi conti da regolare.

La crociata va in laguna

Attacco via nave - frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna (1216).

Le sue cinquecento torri non furono sufficienti alla difesa. I latini cristiani cinsero d’assedio la perla dei greci ortodossi, l’espugnarono, tra incendi, saccheggi, le usuali violenze di ogni guerra di conquista, nel corso della quale le forze di aggressione sembrano ostinarsi a non ricordare più il motivo per cui l’hanno scatenata. Il libro di Meschini descrive con completezza gli eventi. Ma il suo vivido interesse sta nel metodo d’indagine, dall’interno del mondo crociato. Ogni fonte – letteraria o iconografica – è qui messa al lavoro per ricostruire in dettaglio meticoloso quei tragici anni di fermenti, di passioni, di guadagni colossali fondati sul sangue.

La crociata va in laguna

Cocca veneziana - frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna (1216).

I frammenti dei mosaici ravennati in San Giovanni Evangelista forniscono i particolari stilizzati di una scenografia da film, in cui scopriamo i segreti costruttivi degli «uscieri», i vascelli da carico veneziani che da apposite aperture sugli scafi rovesciavano cavalli e armati sulla costa nemica, nella battaglia anfibia, o delle torri mobili montate sulle antenne dei battelli di complemento da cui i combattenti cristiani incrociavano lance e spade con i difensori dei baluardi imperiali di Costantinopoli. Se saccheggio fu (e i cavalli di San Marco ne sono prova), l’analisi documentaria suggerisce all’autore che, probabilmente, la violenza sanguinaria descritta nella cronaca partigiana del coevo bizantino Niceta Coniata era frutto più di comprensibile rancore e senso di vendetta, che di lealtà storica. Certo, il fossato tra la chiesa di Roma e l’ortodossa, già aperto dagli scismi, si allargò. E bene fa Meschini a ricordare l’ammenda di un papa generoso, lungimirante, che a otto secoli di distanza si affatica a ricucire lo strappo, nell’ideale di una fratellanza che non nega la storia, ma ne metabolizza, soffrendo, le cruente magagne.

da “Il Giornale”, 28/10/2005.



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