Questa mattina mi è capitato di imbattermi in una discussione su Facebook che mi ha spinto a interrompere le ferie dal blog per analizzare un punto di vista che ritengo fondamentale, ossia quello della regolamentazione professionale del community manager.
La discussione verteva sull’importanza del lavoro su un riconoscimento organico della figura professionale, basato soprattutto sulla qualità dei risultati. Affermazioni molto ovvie, si potrebbe pensare, ma purtroppo sembra impossibile parlare di social media marketing e di social personal branding senza chiamare in causa una superficialità a volte imbarazzante.
Soprattutto nel secondo dei due punti, ho potuto notare una tendenza a un approccio più ludico che professionale. Il riconoscimento professionale del community manager non potrà mai, a mio avviso, vedere effettiva concretezza senza un lavoro culturale sulla consapevolezza dell’utente base, dal semplice utilizzatore al libero professionista che si affaccia al mondo del social networking per promuovere in maniera capillare il proprio business.
Nella breve ma interessante discussione che ho trovato su Facebook si parlava di “aria fritta” dietro a grandi nomi. Prima di parlare di grandi nomi (o semplicemente di professionisti validi che credono nella formazione continua e la mettono in pratica) è fondamentale però coltivarne l’utenza, come si fa per tutti i settori del sapere o della tecnica dove è ormai diffusa una mentalità puntuale sulla distinzione tra lavoro ben fatto, superficialità e vera e propria ignoranza dell’argomento.
Come è possibile farlo? A mio avviso, tutto questo è attuabile semplicemente diffondendo una cultura social dal basso, aprendo discussioni anche nelle situazioni più impensabili, correggendo eventuali affermazioni sbagliate, senza il timore di vestire con toni accademici un tema che è sottoposto ad analisi non sempre provviste di un punto di vista globale.
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