“Amo scrivere da sempre, perché scrivere è un altro modo per parlare, solo più silenzioso. I libri sono miei compagni inseparabili, in qualunque ambito… Scrivo fin da quando ero piccola, su agende, diari, blocchi di carta, usando anche il cellulare quando non c’è altro sotto mano, pezzi di vita e pensieri che danno alla luce ispirazioni di vario tipo. ‘La cura delle parole’ è nata con estrema naturalezza e con altrettanta semplicità ha trovato il suo corso”.
È quanto dice di sé Tania Piazza. Ed è da qui che bisogna iniziare per cogliere alcuni tratti stilistico-strutturali del suo scrivere, dove la parola non è mero strumento del raccontare – o, meglio, nel nostro caso, del descrivere/vivisezionare alcuni dei rapporti primari, archetipici, che caratterizzano la condizione umana. Non è un abito lessicale che veste una storia, piuttosto che articolare una trama. Ma un fluire “fisiologico” che amalgama flash esistenziali, sensazioni epidermiche, tratti dei caratteri, sfaccettature dell’anima e di sentimenti immuni dal tarlo del tempo.
Rivelandosi, anche, quale soggettivo, necessario esercizio quotidiano dell’Autrice, quasi un farmaco salvavita per dare un senso al “mestiere di vivere”. Ed è in tale ambito che si inserisce la passione di Tania Piazza per i libri, i grandi libri della grande tradizione, in una sorta di onnivora pratica quotidiana che le fa compagnia fin da piccola, in un rapporto fisico col libro come oggetto materico (carta/odore/rumore di pagine).
Occorre partire da qui anche per spiegarsi come “La cura delle parole”, opera prima di Tania Piazza, trascini il lettore in una sorta di vortice seduttivo, risucchiandolo dalla prima all’ultima pagina, non per vedere “come va a finire”, ma per un inesorabile magnetismo di “esperienza totale”, dove la scrittura/contenuto si fa irresistibile attrazione. Una scrittura non basata su precostituite scalette stilistiche, ma che si autogenera nel flusso stesso del raccontare, declinata in diversi toni: dalla colloquialità quotidiana di certi dialoghi, a volte quasi da sceneggiatura filmica, alle variazioni timbriche di raffinati “carotaggi” dei sentimenti, fino a tratti poetici di estrema essenzialità.
Quello che rincuora, nell’opera prima della giovane scrittrice, è, poi, la totale estraneità a certa letteratura (o presunta tale) dei nostri giorni, dove il pregio stilistico, la struttura compositiva o la finezza d’analisi cedono il passo a certi lucrosi diktat del “marketing editoriale”, che inseguono, nelle scelte lessicali (nella parola o, meglio, in quel che rimane di essa) e nel succedersi delle “narrazioni”, i canoni di certa fiction, fatta di ripetitivi format che ammiccano a voyeuristiche attese da “prima serata”.
Da qui la scelta, in “La cura delle parole”, di un “racconto antico”, la cui originalità risiede, in una epoca dell’effimero come la nostra, proprio nello scavare in quella “riserva” fuori dal tempo che identifica quanto definiamo col termine “classico” (il libro inizia con un Prologo, quasi una dichiarazione d’amore verso l’editing epico della tradizione greco-antica).
Ma quale racconto? Ce lo dice una sintetica nota, posta a mo’ di didascalia alla copertina del libro, che compare sul sito di Tania: “È la storia di due vite unite d’un tratto da un disegno vecchio di secoli. Elsa, traviata dalla sua inutile ricerca di un figlio, con l’anima sterile ormai, eremita nel mondo; e Gabriele, nel quale lei vede il figlio mai avuto, che si porta sulle spalle i solchi enormi tracciati dal padre quando lui era solo un bambino. E’ il racconto di una dannazione, alla quale entrambi andranno incontro correndo, impotenti e ignari”.
Opera prima, abbiamo detto, ma certi che ne arriveranno altre.