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Basato su un romanzo e una sceneggiatura dello stesso regista, “Cure” verte su un'anomala ondata di macabri omicidi che sconvolge Tokyo, i quali hanno in comune il fatto che sul corpo delle vittime, e precisamente sul collo, viene costantemente rinvenuta una X incisa nella carne: la firma dell’assassino, o piuttosto del mandante?
Perché se l'assassino, ogni volta differente, viene sempre colto in flagrante accanto al corpo della vittima, egli non ricorda nulla del delitto e fornisce un movente bislacco, cosa che sembrerebbe indicare che in qualche modo sia stato plagiato. Ad investigare sul caso si ritrovano il detective Takabe e il suo amico psicologo Sakuma, ma le indagini sembrano non portare a nulla di concreto fino a che un giovane, che sembra aver perso la memoria e si comporta stranamente, non viene arrestato vicino al luogo di uno degli omicidi. Ben presto i due si rendono conto che l’uomo, Mamiya, sortisce uno strano effetto su tutti coloro con cui entra in contatto, ma purtroppo dopo averlo fermato per interrogarlo perdono le sue tracce. Si scopre che si tratta di un ex studente di psicologia ossessionato da Mesmer. È lui la mente dietro agli omicidi? Takabe a poco a poco stabilisce con lui una sorta di intima connessione che gli permette di riavvicinarlo e risolvere così il caso, ma la vicenda lascerà segni indelebili sulla sua psiche.
Forse perché la materia trattata potrebbe prestarsi ad essere banalizzata, o peggio ridicolizzata, il regista mette in campo due protagonisti/antagonisti con convinzioni ed approccio alla vita opposti, e opta per un taglio realistico e a tratti quasi sommesso, un razionalismo di fondo destinato a sfaldarsi nello svolgimento della trama che, proprio per questa sua caratteristica, rende più efficace il finale.Del film, tecnicamente, tutto è vincente, in particolare l’uso del suono, spesso preferito a una colonna sonora più invadente, e la piacevole “patina” antica delle immagini, certamente una deliberata scelta registica. La trama si svolge molto lentamente e non spiega alcuni dettagli ma, per me, è questo il bello. “Cure” si svela a poco a poco ed è necessario arrivare alla fine per apprezzarlo. Altro non voglio dire, o rischierei di rovinarvi la sorpresa, eccetto che l’istinto omicida viene presentato come una sorta di virus che passa dal “portatore sano” (Mamiya) ai futuri “ammalati” (gli assassini) con estrema facilità; il veicolo di trasmissione può essere una cosa qualsiasi, dal bicchier d’acqua ad un altro oggetto fino a quel momento totalmente inoffensivo, come un accendino, oppure un segno, come una X scritta su una parete.
Questa del virus per i giapponesi dev’essere davvero un’idea fissa, a giudicare dal numero di pellicole che in un modo o nell’altro hanno trattato l’argomento – d’altronde, per parlare di dati reali e non più di finzione, il Giappone può vantarsi, si fa per dire, di aver avuto nella sua storia diversi serial killer che hanno scelto di uccidere infettando in un modo o nell’altro le proprie vittime, come Mitsuru Suzuki (infettò circa 120 persone con batteri del tifo e della dissenteria e almeno 4 di esse morirono), Tsei-Sabro Takahashi (uccise almeno 3 persone coi i bacilli della salmonella e del tifo e con la morfina) e Daisuke Mori, per non parlare della setta Aum Shinrikyo, che rilasciò il gas letale sarin nella metropolitana di Tokyo nel 1995. Quest’ultimo avvenimento doveva essere ancora fresco nella mente del regista quando girò “Cure” e chissà che non abbia influenzato in qualche modo la sua atmosfera.
Questo, come molti altri film che parlano di controllo mentale, soprattutto se in chiave thriller, non solo si muove nell’inquietante territorio che rappresenta il confine tra la normalità e la psicosi, ma travalica l’idea che sta alla base dell’ipnosi, e cioè che non è possibile far fare ad una persona qualcosa che non farebbe in condizioni normali, ovvero senza alcun condizionamento esterno. In psicanalisi si usa l'ipnosi per sfruttarne l'effetto catartico: eliminando le resistenze psicologiche del soggetto lo si può portare a (ri)scoprire cose che ha rimosso dalla memoria, di conseguenza casomai può favorire la suggestione, e non esserne la conseguenza. Se questo assunto è vero, ne consegue che il messaggio del film è che il male è radicato dentro tutti noi, anche nelle persone apparentemente più normali e razionali, e non aspetta altro che di venire liberato. Un mostro si nasconde in ognuno di noi, e si alimenta di piccoli risentimenti, invidie, meschinità di cui forse non siamo nemmeno consapevoli.Perciò, dopo la visione del film, una domanda sorge spontanea. Se spersonalizzo il male facendolo compiere a qualcun altro, sono ancora colpevole? E colui che ho plagiato può dirsi innocente?I film sembra dirci che non ci sono demoni o fantasmi che ci costringono a fare del male al nostro prossimo. Lo stesso Mamiya non ha nulla dell’assassino nevrotico, non sembra animato da sentimenti aggressivi, ma solo indifferente come un bambino che strappa le ali a una farfalla. Una cura per questo non esiste, il male è un seme che non possiamo sradicare.Se il termine ipnosi è piuttosto comune, mesmerismo viene utilizzato meno di frequente. Il Cicap - Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale - definisce quest’ultimo una “terapia medica pseudoscientifica”, bocciandolo così senza appello, come già fece a suo tempo la facoltà di Medicina di Vienna che definì il suo operato "pratica ciarlatanesca", proibendo a Mesmer di proseguire nella sua attività. Ma di questo e altro parleremo nella seconda parte del post, tra pochi giorni.
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