Magazine Economia
Nonostante la crisi la “cura Monti” funziona meglio del previsto: secondo quanto annunciato dall’Istat lo scorso anno il Prodotto interno lordo (Pil) italiano ai prezzi di mercato è salito a 1.580.220 milioni di euro correnti, con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. La variazione del Pil in volume è stata più modesta e pari allo 0,4% (ma ci si attendeva anche meno, +0,3%), rispetto ad aumenti del Pil, sempre in volume, dell’1,8% nel 2010 e crescite pari, nel 2011, allo 0,9% nel Regno Unito, all’1,7% in Francia e negli Stati Uniti e al 3% in Germania (mentre si registra una
diminuzione dello 0,9% in Giappone, che risente degli effetti del maremoto che a marzo mise in ginocchio molte industrie e fece sfiorare un incidente nucleare gravissimo a Fukushima).
In più l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil è pari al -3,9% (era pari al -4,6% nel 2010, il consensus degli analisti si attendeva un calo al -4%), con un saldo primario (indebitamento netto meno la spesa per interessi) pari a 15.658 milioni di euro correnti, valore questo pari all’1,0% del Pil. Al risultato hanno contribuito in misura rilevante le manovre correttive impostate dal governo Berlusconi prima (per complessivi 61 miliardi di euro entro il 2014) e dall’esecutivo Monti poi (che nelle ultime settimane ha “corretto” ancora i conti per altri 20 miliardi), per un totale di 81 miliardi dei euro.
Nonostante questo la crisi, che le misure di cui sopra accentuano nel breve termine e che senza misure a favore di maggiore concorrenza, innovazione e investimenti rischia di peggiorare anche a medio termine almeno per la componente legata alla domanda interna, ha come detto depresso il Pil più rapidamente di quanto si stesse riducendo il debito, col risultato che il rapporto debito/Pil non solo non è sceso, ma è ulteriormente aumentato toccando il 120,1% con 1.899 miliardi di debito pubblico che continuano a gravare sulla testa degli italiani tutti.
Scendendo a vedere tra le componenti della domanda nel 2011 si è registrata una crescita del 5,6% delle esportazioni di beni e servizi (quindi la “cura Merkel” fatta di “rigore ed esportazioni” sembrerebbe aver funzionato anche per l’Italia) e una diminuzione dell’1,9% degli investimenti fissi lordi (e questo invece è un brutto campanello d’allarme perché vuol dire che ci sono più aziende che chiudono e/o se ne vanno dall’Italia più di quanto non ne arrivino/se ne aprano di nuove), mentre i consumi finali nazionali sono rimasti stazionari (e questo sembrerebbe indicare che al momento gli ammortizzatori sociali hanno svolto la loro funzione evitando una crisi ancora più marcata) e le importazioni sono aumentate solo dello 0,4%.
Tutto bene? No, affatto: sempre l’Istat ha reso noto che a gennaio 2012, nonostante un incremento di 18 mila occupati (+0,1%) rispetto a dicembre 2011 (+0,2% rispetto a gennaio 2012 quando risultavano 40 mila occupati in meno) il numero di disoccupati è parallelamente aumentato di 64 mila unità rispetto a dicembre (+2,8%) e risulta ora pari a 2,312 milioni, il che significa che rispetto al gennaio 2011 ci sono 286 mila italiani in più (+14,1%) che si trovano in stato di disoccupazione, il cui indice sale al 9,2% (dal 9% di fine 2011 e rispetto all’8,2% dal gennaio 2011) del totale della popolazione in età da lavoro.
Ancora una volta a soffrire maggiormente la crisi restano i lavoratori più giovani della fascia 15-24 anni (meno esperti e meno qualificati di altri più “anziani”) per i quali l’incidenza dei disoccupati è pari al 31,1% rispetto agli occupati (dunque per ogni tre ragazzi che lavorano uno resta in attesa di un impiego). Piccolo segnale positivo (della serie “la crisi aguzza l’ingegno”, forse), il numero di “inattivi”, ossia di chi il lavoro ha smesso persino di cercarlo, cala dello 0,4%, pari a 63 mila persone (guarda caso è una cifra pressoché analoga all’aumento dei “disoccupati”) e il tasso di inattività cala al 37,3% (dal 37,4% di dicembre e rispetto al 38,1% di un anno prima).
La situazione che si trova ad affrontare Mario Monti (una crescita inconsistente che sta cedendo il passo a una nuova recessione, la quarta dal 2001, nonostante un discreto andamento delle esportazioni e per ora una tenuta della domanda interna) è per molti versi simile a quella degli altri paesi dell’Eurozona: gli ultimi numeri di Eurostat parlano di una disoccupazione media del 10,7% a fine gennaio nell’area dell’euro (10,1% nella Ue-27) in crescita dello 0,1% sul mese precedente e dello 0,7% rispetto a un anno prima.
In tutto 16,925 milioni di persone nei paesi della moneta unica cercano ma non trovano lavoro (la cifra sale a 24,325 milioni se si considera l’intera Ue-27), peraltro con forti differenze tra chi come Austria, Olanda o Lussemburgo vede tassi di disoccupazione tra il 4% e il 5,1% della popolazione attiva e chi come la Spagna (23,3%), la Grecia (19,9% a fine novembre 2011, ultimo dato ufficiale disponibile, ma il dato corrente è sicuramente peggiorato), l’Irlanda e il Portogallo (entrambi al 14,8%) registra tassi di disoccupazione a doppia cifra.
Anche per i nostri partner europei la disoccupazione giovanile è il problema maggiore, con 3,314 milioni di giovani in cerca di lavoro nell’Eurozona (5,507 milioni nella Ue-27) ovvero un tasso di disoccupazione giovanile medio del 21,6% nell’Eurozona e del 22,4% nella Ue-27. Anche in questo caso poi le differenze tra la Germania (dove resta disoccupato solo il 7,8% dei giovani in cerca di lavoro), l’Austria (8,9%) o l’Olanda (9%) sono marcate rispetto a Spagna (dove la metà dei giovani, il 49,9%, resta a spasso), Grecia (48,1%) o Slovacchia (36%) e questo non pare un caso ma una conferma della necessità di procedere a svecchiare l’Italia se si vuole ripartire e non fare la fine della Grecia.
Come uscire da questa contraddizione? Favorendo gli investimenti fissi lordi (come visto pericolosamente in calo anche in Italia) per evitare di fare la fine della Grecia, che secondo l’istituto statistico Markit (che ha mostrato un impressionante grafico al riguardo) sta “rapidamente distaccandosi dagli altri” paesi dell’Eurozona con una produzione doppiamente in picchiata (non solo è in contrazione, ma ad un ritmo che tende a crescere di mese in mese). Per ora, guardando i dati di Markit, l’Italia sembra reggere in un gruppo di testa composto da Francia, Irlanda e Olanda, mentre a sorpresa la Germania sta rapidamente bruciando ogni vantaggio e rischia di entrare inopinatamente in recessione (o di evitarla per poco), con la Spagna che resta certamente in posizione più precaria del Belpaese (e il Portogallo purtroppo ancora di più e sempre più percepito come la possibile “prossima Grecia” anche dai mercati). Il che sembra indicare che la “cura Merkel” non è la panacea per tutti i mali (non può del resto esserlo dipendendo strettamente dall'andamento dell'economia mondiale) problema sarà dunque di far ripartire investimenti e crescita, svecchiando la struttura economica italiana in modo che possa reggere le sfide del presente e del futuro (ma sotto questo profilo il decreto che doveva lanciare una nuova fase di liberalizzazione sta rapidamente svuotandosi sotto i colpi incrociati delle lobbies di ogni categoria e colore politico e questo è molto pericoloso), portando rapidamente a termine quelle infrastrutture che realmente possono portare benefici all’Italia (prima ancora del ponte di Messina o della Tav in Val di Susa sarebbe utile forse pensare alla banda larga, al Wi-Fi, alle autostrade del mare e ad una concorrenza vera nel settore ferrotranviario e nel trasporto locale).
Nel frattempo occorrerà fare una cosa che i paesi emergenti di tutto il mondo (e dell’Asia in particolare) stanno facendo da anni: riqualificare i nostri ragazzi e insieme i nostri lavoratori già in attività, puntare sulla ricerca, far crescere una cultura delle competenze e dell'intraprendere autentica e in grado di far nascere nuove imprese e sviluppare nuovi prodotti e servizi, in una parola aprirsi al nuovo in tutti i settori della vita economica e civile. Altrimenti continueremo ad assistere a battaglie di retroguardia per cercare di salvare qualche migliaia di posti di lavoro in settori maturi come l’automobile, la chimica o le costruzioni perdendo la possibilità di crearne alcuni milioni di nuovi e più qualificati per noi e i nostri figli, svecchiando finalmente il paese sia culturalmente sia economicamente sia socialmente. E scusate se è poco. fonte
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