La locandina del film
12 GIUGNO – Ci sono film che, è inutile, appena si esce dal cinema sono già dimenticati. Anche quelli con pretese simil-intellettuali che poi si rivelano pretenziose, superficiali e poco efficaci. E poi ci sono gli altri, invece, che non si sa poi bene perchè, ma ti restano dentro, nelle pieghe dell’anima. A volte quando meno te l’aspetti. Magari non te ne accorgi subito, ma è una sensazione latente, che striscia, cresce, fino a lasciarti nella pancia un’inquietudine strana, anche a distanza di giorni dalla sua visione. E certamente, sia piaciuto o no, “La vita di Adele” è uno di questi. Non perchè si occupi di una tematica particolarmente originale (si tratta di una “banalissima” storia d’amore, sia pur omosessuale, fra due donne), ma per come lo fa con una profondità tale da non poter in alcun modo lasciare indifferenti. La magnificenza dell’interpretazione delle due protagoniste (una splendida – che bella sorpresa! – Adele Exarchopoulos e una brava Lea Seidoux, poi premiata, come il film, al Festival di Cannes 2013 , anche se a nostro giudizio il premio avrebbe dovuto essere assegnato alla sua compagna) è tale da lasciarti, grazie alla loro credibilità, una “tenerezza nel cuore” difficile da scacciare. E ben venga. Perchè abbiamo bisogno di storie così. Amare, ma vere. E’ denso “Adele”. Ispirato al fumetto Il blu è un colore caldo (Rizzoli, pp. 160) di Julie Maroh è un film denso, densissimo, carico di così tante sfumature e particolari, che quasi si fa fatica ad elencarli tutti: è un continuo indugiare della telecamera su pelle, bocche, denti, occhi, cibo, sguardi, capelli (fondamentali, nel loro utilizzo simbolico). Elementi che in fondo riescono già a creare quel tourbillon di sensazioni che spaziano dal dolore alla gioia, dalla leggerezza giovanile alla cattiveria giovanile, dall’euforia della conquista allo smarrimento della perdita, descritti grazie all’abbondanza di sorrisi, pianti, urla, insulti, parole…
Già, parole. Parole graffianti che emergono dai libri citati (su tutti gli autori francesi Choderlos de Laclos, Marivaux e Sartre), parole dolcissime che emergono dai dialoghi rubati fra le amanti, parole sospese, non dette, che rimangono lì, nello sguardo dei protagonisti, a mezz’aria, eppure ben chiari nella mente dello spettatore, letteralmente portato per mano all’interno di un mondo a tratti magico. Magico come gli immensi e frondosi alberi dei parchi di Lille, multiculturale città nel nord della Francia dove si svolge la vicenda, come i disegni, prima, e i quadri, poi, di “Emma dai capelli blu”, come le luci al neon e suoni dei discopub notturni della città, come gli spaghetti al ragù mangiati in abbondanza dalla famiglia di Adele, davanti al televisore, o le ostriche preferite, invece, dalla famiglia della sua amante in un forse facile simbolismo culinario che certifica differenze sociali e culturali. Adele è onnivora di tutto e tutti. Di cibo, di letture, di esperienze, d’amore. Ecco spiegata così anche la sua “fame”, che tenta di placare con barrette di cioccolato consumate voracemente o con relazioni veloci con i propri coetanei maschi o più durature come quella con l’affascinante Emma.
Lea Seidoux e Adele Exarchopoulos a Cannes 2013
Il bravo regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche riesce a rendere benissimo, con semplici artifici, le naturali inquietudini notturne di Adele-adolescente e la sua successiva iniziazione saffica, grazie anche (e soprattutto) ad una interpretazione che richiede davvero tutto il suo giovane corpo (la ragazza, francese ma di chiare origini greche, ha appena vent’anni, ma già una lunga filmografia alle spalle). Durante una potente “scena-madre” del film, poi, descrive in modo quasi insopportabile per lo spettatore il dolore sgomento, incredulo, inaccettabile da parte Adele, favorendo l’immedesimazione nello smarrimento della ragazza. Si esplora, qui, il mondo dell’omossessualità, la sua scoperta, la sua accettazione, la sua negazione. Lo si fa con delicatezza, anche se poi il sesso è utilizzato in abbondanza per spiegarne la travolgente passione. E’ già stato fatto e si farà ancora. L’amore nasce, cresce, sale, su su fino al suo picco massimo e poi, all’improvviso, ti molla, lasciandoti cadere da vette da cui è inevitabile farsi del male. E quella camminata, finale, di spalle, di Adele ne è l’emblema. Una solitudine inevitabile. Punitiva. Catartica e purificatrice. A cui non ci si può arrendere, ma ci si può abituare. Per sopravvivere ad una grande storia d’amore finita.
“Adele” non è la scoperta dell’acqua calda, ci mancherebbe. Ma la sensibilità con cui è stato trattato il tema, in quasi tre ore di bel cinema, merita almeno una visione.
Ernesto Kieffer
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