“La differenza la fa quello che vivi”: intervista ad AkaB

Creato il 24 marzo 2015 da Stivalepensante @StivalePensante

AKA: acronimo dell’espressione inglese Also Know As usata per descrivere gli pseudonimi di un autore. B: lettera che deriva dall’antichissimo alfabeto lineare in cui il suono [b] era rappresentato da una casa. 

Gabriele Di Benedetto, in arte AkaB (Foto – facebook.com/akab23)

Gabriele Di Benedetto, in arte AkaB, è fumettista, illustratore, pittore e regista, un completo artista che mal sopporta le definizioni. Prende il tè per colazione e lavora molto di notte. Negli anni ’90 tra i fondatori dello Shok Studio, con cui ha prodotto e poi venduto fumetti alle major americane, AkaB ha all’attivo numerose collaborazioni, tra cui Il Male, Mucchio, Il Manifesto, Rolling Stone, Indipendent e molte altre ancora. Esploratore delle condizioni dell’animo umano e sperimentatore non convenzionale, ha pubblicato libri per diverse case editrici: ReVolver per Poseidon Press, Redux e PoP! per Grrrzetic, Le 5 Fasi per BD, Voci Dentro per Latitudine 42, Come Un Piccolo Olocausto, Un Uomo Mascherato e Monarch per Logos, Storia di una MadreHuman Kit per Alessandro Berardinelli Editore e l’ultimo, Defragment, per Blu Gallery. Il suo primo lungometraggio, Mattatoio, viene selezionato per la Sessantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Seguiranno Il corpo di Cristo e Vita e opere di un Santo. Con il collettivo Dummy vince il Leone di Narnia 2012 per la migliore graphic novel con Le 5 fasi, di cui si occupa del capitolo sulla Depressione.

Qual è la tua formazione? Hai frequentato un’accademia per fare questo “lavoro” o la tua scuola è stata l’esperienza, oltre che il talento e l’inclinazione per il disegno?

Formazione, talento ed inclinazione sono argomenti molto legati tra loro. Tutti i bambini disegnano, alcuni smettono, altri no. I primi ricordi che ho di me da bambino sono legati al disegnare e alla soddisfazione che ne traevo. Scolasticamente, ho fatto il liceo artistico ma non l’ho mai finito. Ci sono arrivato con una grande passione per il disegno e per il fumetto, anche come lettore, però, l’approccio scolastico, paradossalmente, mi ha tenuto un po’ lontano dal piacere di disegnare.

Questo perchè ti sentivi indirizzato? Forse scolasticamente si tende troppo ad instradare il talento?

Non avevo dei professori che sapessero trasmettermi il piacere per il disegno. Tecnicamente, ho studiato e imparato molto da solo. Nel frattempo, con alcuni compagni dello stesso liceo, ho iniziato a fare fumetti e ad auto-produrli. Sono andati talmente bene che, nel giro di un paio d’anni, sono stati comprati dagli Stati Uniti. Così, abbiamo affittato uno studio in via Plezzo e ho abbandonato il liceo, che sembrava tenermi più lontano dalle cose che facevo. Stavo già lavorando e quindi ho seguito il progetto Shok Studio, ci firmavamo così. La sua forza era data al fatto che eravamo un gruppo di amici molto affiatati, che hanno deciso di fare un lavoro insieme, stavamo sempre insieme e questo alimentava moltissimo la creatività. Qui, ho imparato tantissime cose, a dover gestire i fumetti in toto. Seguivo tutto, ero affascinato dai vari passaggi tecnici della stampa, alla spedizione, alla distribuzione, ai rapporti con le librerie…

Sembra sia stata un’esperienza importantissima per te questa dello Shok Studio

E’ stata un’esperienza molto potente e formativa. Il fumettista è un lavoro solitario e noi, inconsapevolmente, eravamo riusciti a dargli una chiave collettiva interessantissima. Eravamo però molto giovani e non ce la siamo gestita bene. L’ho capito dopo anni, ma quando hai il sogno di diventare un autore di fumetti e a meno di vent’anni lo realizzi, vendendo i tuoi lavori a case editrici importanti, fai fatica a gestire la cosa. L’euforia era fortissima e penso mi abbia anche provocato un senso di megalomania. Sono nati i problemi, come succede alle boy-band nelle peggiori storie ed ognuno di noi, con la sua forte personalità, ha iniziato a pretendere qualcosa in più, ad avere atteggiamenti da prima donna. Abbiamo così, stupidamente, interrotto i rapporti con gli Stati Uniti e ci siamo divisi, convinti che, ormai, ognuno potesse fare ciò desiderava. In realtà, tutti abbiamo vissuto in maniera diversa e dolorosa ciò che è accaduto. Non c’era una garanzia che quel progetto durasse, ma accettarne la conclusione non è stato facile, anche se credo sia stata parte di un processo evolutivo.

(Foto – facebook.com/akab23)

Ognuno poi ha preso la sua strada. Uno è un bravissimo grafico, un altro insegna in una scuola di moda, uno ha preso la via mistica e un altro è scomparso nel nulla e infine Alberto (Ponticelli) con cui condivido il progetto del collettivo Dummy, ha continuato la carriera americana. Tutti abbiamo cercato un modo per superare questo “lutto”. Io sono andato a vivere in Islanda, che per me è stata una grandissima scuola. Ci sono andato con la scusa di fare l’operaio, ma dopo sei mesi ho iniziato a fare mostre. Se la vedi sulla carta, l’Islanda da un senso d’isolamento fortissimo. Lì hanno anche il problema dei sei mesi di luce e sei mesi di buio, ma in realtà c’è sempre una specie di grigio. Io mi ci sono trovato benissimo. Quando sono rientrato ho scelto poi di vivere in zona Isola, in Pergola, centro sociale ormai chiuso, e direi che quella è stata un’altra grandissima scuola di vita, molto dura.

Parlando di formazione tu mi rispondi tenendo in considerazione molto ciò che si vive, la crescita umana, ma non la leghi tanto alla tecnica o alla scuola… 

Di tecnici bravi ce ne sono tantissimi, ma di persone interessanti, molto meno. Mentre facevo il liceo, proprio per la grande delusione di come insegnavano il disegno a scuola, mi sono iscritto ad un corso serale di illustrazione al Castello Sforzesco, qui a Milano. Lì, ho conosciuto persone tecnicamente bravissime, che facevano cose pulitissime, ma non avevano niente da dire. Il talento non mi sembra la cosa più importante, non ero il più bravo a disegnare a scuola, forse lo ero da bambino, sicuramente non al liceo, eppure molte delle persone più talentuose nel disegno sono finite a fare altro. La differenza la fa quello che vivi, che hai da dire.

Artisticamente, ti esprimi in molti modi: sei illustratore, fumettista, videoartista… Perché, in Italia, si avverte spesso l’esigenza di categorizzare e quindi inserire in scompartimenti ben definiti tutto ciò che riguarda la cultura e l’arte? 

Dopo aver vissuto in Pergola, ho fatto per cinque anni solo video. Disegnavo sui miei taccuini, ma ho lavorato solo con i video. Ho girato tre lungometraggi: Mattatoio, selezionato per la Sessantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Il Corpo di Cristo, con cui sono andato al Bellaria Film Festival e poi Vite e opere di un Santo, selezionato allo Stigma Film Festival di Palermo. Per me definire significa chiudere. Io non voglio essere de-finito e nemmeno essere chiuso in qualcosa. E’ come dire che sei un solo aspetto emotivo della tua esistenza, ma non puoi essere così, sei tante cose insieme. Lavorando con i video, ho acquisito una visione delle cose differente. Il cinema mi ha insegnato tantissimo, specialmente il montaggio. E’ normale che seguendo una ricerca su un linguaggio si finisca per appassionarsi anche ad un altro. I linguaggi si contaminano e rafforzano l’uno con l’altro.

Quando senti l’esigenza di raccontare una storia sai già quale linguaggio utilizzerai per farlo?

Dipende. Ci sono delle cose che sono diventate sia un fumetto che un film. In questi ultimi anni, ho lavorato con i libri illustrati, che sono un’altra cosa ancora e hanno tutto un altro linguaggio. E’ anche la storia a rivelarti quale sia il linguaggio giusto. E chiaramente, se la declini in media diversi, cambia, prende una direzione diversa, a seconda di quello utilizzato. E’ difficile da spiegare, ma io la lascio aperta. Ho suggestioni su delle tematiche e poi faccio in modo che ci sia una parte di non controllo. La storia in sè deve rivelarsi, deve sorprendermi. Se lavori in libertà, fai persino autoanalisi e a me interessa lavorare su me stesso. Gli ultimi quattro/cinque libri, che siano state piccole o grandi rivelazioni, quando li ho chiusi, mi hanno lasciato degli insegnamenti, permettendomi anche di comprendere qualcosa in più su ciò che sto facendo. Mi auguro e immagino che, se questo accade a me, possa accadere anche al lettore.

Oggi si parla tantissimo di graphic novel. Cosa la differenzia dal fumetto? 

Parliamo ancora di definizioni. Può essere divertente lavorare a cose più “leggere” e persino fruirne, ma c’è stato e c’è il bisogno di differenziarle rispetto a lavori più complessi e personali. Non è snobismo. Parliamo comunque di forme d’arte, d’espressione di sé, di aspirazioni e tensioni che portano alla crescita umana. L’intrattenimento ha un ruolo ed uno scopo, il problema nasce quando viene dato troppo spazio solo a questo, spingendo ad un appiattimento culturale collettivo. E’ poi una problematica che riguarda moltissimi aspetti della nostra società. Sto lavorando, in questo periodo, ad un libro su Frank Gehry, un architetto canadese, tra i massimi esponenti della corrente decostruttivista, che progetta case storte, strane, diverse da quelle a cui siamo abituati. Gehry fa il suo lavoro di architetto ad un livello autorale, la maggior parte no. C’è una rima del rapper Enigma che, secondo me, esprime benissimo ciò di cui stiamo parlando: “La vita è una festa e tu la rovini pensando solo alla torta e a una misera fetta”. La maggior parte delle persone che si avvicinano al fumetto lo fanno per passione, ma inevitabilmente devono confrontarsi con l’industria. Io la mia scelta di preferenza la faccio quotidianamente scegliendo di lavorare solo su cose che ritengo interessanti e su cui possa avere massima libertà espressiva.

In questo periodo, se si pensa al fumetto, si pensa a Zerocalcare…

Semplicemente credo che vendere molto non significhi essere bravi. Sicuramente ha incontrato il gusto di tanto pubblico, è metabolizzabile e molti ne sono incuriositi proprio perché piace a tutti. E’ solo un peccato che le persone si perdano il resto, c’è anche molto altro nel mondo del fumetto che merita di essere seguito, ma forse è anche più impegnativo da leggere, da comprendere. Come in tutti i settori, difficilmente “vince” il più bravo, ma è anche vero che se hai perseveranza, pazienza e riesci a permettertelo, prima o poi, qualcuno se ne accorge.

Nelle tue opere affronti i demoni dell’animo umano, le brutture del mondo, non sempre facilmente metabolizzabili. Penso a Monarch, al racconto del rapporto tra vittima e carnefice, o al folle Boris, protagonista del tuo primo film Mattatoio.

Infatti, sono stupito di avere un minimo di seguito e di riuscire ancora a farli i miei libri. Mi rendo conto che rispetto alle cose che circolano oggi, le mie possano sembrare folli, forse impegnative, ma non m’interessa il gioco al ribasso. In Monarch, affrontando il rapporto tra vittima e carnefice, questa dualità si rivela illusoria, fallimentare, perché tu stesso ti accorgi di essere entrambe le cose, ne sei parte a seconda del momento che stai vivendo. Dietro a questo libro ci sono anni di ricerca. Ognuno dei miei libri alla fine mi ha fatto crescere e sono il modo che mi permette di evitare di impazzire, forse per questo lascio un po’ perdere i discorsi legati alle vendite. Credo si sia un po’ perso il senso implicito della lettura. Un libro, deve passarti qualcosa, lasciarti un sapere, se no perché leggerlo?

DEFRAGMENT

Personalmente credo ci sia bisogno di affrontare ciò che è ritenuto osceno, proprio per non farsi sopraffare dalla “bruttezza” che io classifico come una delle esperienze umane più alte. Perché secondo te è ancora considerata un tabù?

Siamo continuamente distratti e portati alla distrazione. Le persone sono più facilmente controllabili se poco consapevoli. La consapevolezza è quella che ti porta a farti delle domande. Ciò che ti mette di fronte veramente a te stesso è difficile da affrontare, molti hanno paura, come è normale che sia, perché pieni di cose irrisolte. Però, io credo che il vero lavoro di vivere sia proprio questo, farti queste domande singolarmente e crescere. Più tu migliori come creatura vivente, più è probabile che migliori tutto il resto e quello che ti sta intorno. Ma c’è molta paura anche a leggere di questo. Ed è difficile crescere senza attraversare il dolore, evitarlo non ti permette di farlo.

Il tuo ultimo libro si intitola Defragment. Perché questo titolo? E perché paragoni i file di un pc ai ricordi nella mente umana?

Ad un certo punto della mia vita ho traslocato, svuotato una cantina e ho ritrovato disegni di cui mi ero dimenticato, contemporaneamente ho sistemato degli hard disk, quindi mi è arrivato tutto questo materiale nuovo in un periodo in cui sentivo la necessità di fare ordine dentro di me. Il libro nasce da tutto questo. Ho ragionato moltissimo sul significato della ricapitolazione e sul fatto che personalmente stessi “ri-capitolando”, quindi cadendo nuovamente e in questa seconda caduta, poi rimessa in ordine, mi si è composto un libro. Ho notato che questi disegni, che non erano fatti per essere consequenziali sembravano essere una storia. Li ho messi in ordine, poi mischiati, dopo fatti rimettere insieme ad un’altra persona senza che io li guardassi e dopodiché, in una notte sola, l’ho scritto. Quando ho scritto l’ultima frase mi sono sentito alleggerito, è stato come se si fosse diradata della nebbia, come mettere in ordine una camera o la scrivania del pc. Nel mio primo computer, mi dava pace guardare il processo di deframmentazione dei file, per questo ho intitolato così il libro. Il procedimento informatico è infatti simile a quello dell’esoterismo, in cui si va a ricapitolare episodi chiave, mettendoli in ordine e creando spazio.

In seguito alla strage della redazione di “Charlie Hebdo”, si è dibattuto molto sul senso della satira. Per te quale funzione dovrebbe avere oggi?

Per me dovrebbe essere lecito parlare di tutto, ma non viviamo in un mondo adulto. Per attitudine, più una cosa nessuno vuole sia detta, più mi sembra interessante andarla a dire. E’ anche così che le parole sono state sdoganate e ci si è liberati da tabù, con qualcuno che, prima di noi, si è preso il rischio di dirle. In ogni caso lo stesso giorno della strage di Parigi sono morte duemila persone in Nigeria, ma nessuno se ne è accorto. Quello che voglio dire è che la nostra attenzione viene manipolata.

Il blog di Akab: http://mattatoio23.blogspot.it

Dal 26 marzo al 6 maggio 2015 AkaB sarà in mostra presso gli spazi di Killer Kiccen a Milano, con 40 tavole tratte da DEFRAGMENT, il suo ultimo lavoro. L’inaugurazione si svolgerà giovedì 26 marzo alle 19. 

Sempre a Milano, presso la sede della Scuola del Fumetto, in via Savona 10, sarà invece in mostra con MONARCH, fino al 10 aprile, dalle 10 alle 13. 

(Foto – mattatoio23.blogspot.it)


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