Questa l'intervista che ne è seguita. Pubblicata, più o meno pedissequamente nella terza pagina de La Sicilia del 17 luglio.
«Il coraggio di vivere, in certe circostanze, nessuno può essere sicuro di averlo. E' qualcosa che si scopre col tempo. In me la voglia di vivere ha preso il sopravvento soltanto quando ho avuto la sicurezza che avrei potuto farla finita senza chiedere aiuto». A parlare è Lorenzo Amurri, che nel romanzo autobiografico, Apnea (Fandango Libri, euro 16), che è stato tra i dodici candidati alla cinquina dei finalisti del premio Strega, racconta di sé dal quel 12 gennaio 1997, giorno in cui la sua vita di musicista ribelle, cambiò drasticamente dopo un incidente di sci sul Terminillo che l'ha reso tetraplegico.
Allora Lorenzo Amurri aveva 26 anni. «Ed ero uno che non parlava se non attraverso la mia chitarra - spiega lo scrittore -. Oggi ho scoperto che parlare mi piace e, soprattutto, mi piace raccontare la mia esperienza».Un racconto ininterrotto. Prima impresso su carta in Apnea, poi continuato in televisione, tra la gente, nelle scuole. Domenica scorsa (il 14 luglio, ndb) l'ultima tappa prima delle vacanze in una casa davanti al mare a Portopalo («L'ho scelta perché è bella, selvaggia e lì ho molti amici») l'ha portato a Catania, su invito di RadioLab. Ad ascoltarlo anche i pazienti e i volontari dell'Associazione Unità spinale Cannizzaro (Auspica).
Se dovessi sintetizzare «Apnea» con una frase del libro?
«La mia condizione non si accetta mai, ma bisogna imparare a conviverci bene».
La tua vita, in realtà, dopo la pubblicazione è cambiata un'altra volta
«Sono stati sei mesi molto faticosi, ma anche molto belli. In fin dei conti volevo fare la rock star. Sono diventato una bookstar».Cosa volevi che arrivasse alla gente della tua storia?
«Volevo che ci si rendesse conto di quello che succede a una persona che, dopo un incidente, viene messa su una sedia a rotelle. La gente non sa quanto lavoro fisico e psicologico occorre prima di conquistarla. La carrozzina è il "premio" che si riceve per continuare a vivere e non è detto che ci si riesca a starci seduti sopra. Mi interessava che si capisse quanta fatica, dolore e forza c'è dietro una cosa che può sembrare semplice. Ho scritto anche per Johanna, la mia fidanzata del tempo, che mi è stata vicina in quel periodo. E' lei altra protagonista del libro. Avevo molte cose da dirle. Poi, è inutile mentire, i libri si scrivono per se stessi. Ti devi divertire mentre scrivi».Come ha reagito Johanna a vedere raccontata la propria vita?
«Le ho mandato il libro molto prima che uscisse. E' stata felice, emozionata. Anche un po' stranita, soprattutto quando ha capito che questa storia non sarebbe stata più soltanto nostra. Ho scritto anche per la mia famiglia, per dire loro cosa mi era passato per la testa. In certi momenti è impossibile parlare con chi ti vuole bene, si erge un muro che serve a proteggere se stessi e chi ti sta intorno».C'è qualcuno che c'è rimasto male…
«Per i miei familiari conoscere i miei pensieri è stata una scoperta molto amara. Mia mamma e i miei fratelli mi hanno detto: "Potevi trattarci un po' meglio". Ma non potevo barare sul mio punto di vista di quel momento».
Usi spesso la parola «divertente» per raccontare e raccontarti. Una parola apparentemente stridente in un contesto del genere…
«Molti vedono la disabilità come la fine della vita, la tristezza più totale. In realtà la mia situazione si presta a ironia e sarcasmo. Del resto non bisogna mai prendersi troppo sul serio perché si corre il rischio di cadere nell'autocommiserazione e nel pietismo. Io ho evitato di farlo. Il primario del reparto di riabilitazione nel quale sono stato ricoverato in Svizzera mi ha detto che, fin qui, sono stato la persona più coraggiosa ad affrontare la disabilità che lui abbia mai conosciuta. E anche quello che l'ha fatto più ridere».Prima dell'incidente avevi contezza di questo uuo coraggio e della tua ironia
«L'ironia fa parte del dna della mia famiglia, ce l'ha passata mio padre (lo scrittore e umorista Antonio Amurri, ndr). Il coraggio l'ho scoperto in seguito. Devo confessare che, quando prima dell'incidente avevo visto Christopher Reeve (paraplegico dopo una caduta da cavallo, ndr) parlare alla cerimonia degli Oscar, dissi a Johanna che, se mi fossi ridotto in quel modo, avrebbe dovuto ammazzarmi perché io non avrei voluto vivere così. Invece la realtà è stata molto diversa».Una lenta ricostruzione…
«Una ricostruzione secondo parametri completamente diversi. Ho dovuto imparare a vivere da una posizione e da un punto di vista nuovo. Ho dovuto imparare a dialogare diversamente con familiari, amici, fidanzata. Ho affrontato l'imbarazzo della parola. Ero molto taciturno, ho dovuto "imparare" a parlare, perché solo così potevo spiegarmi agli altri».
Ma hai pensato anche al suicidio. Secondo te tutti l'hanno fatto almeno una volta nella vita.
«Ne sono convinto. A me era capitato anche prima dell'incidente. Tutti abbiamo momenti di sconforto. Ma tra il pensarci e il metterlo in pratica c'è un abisso, a meno che non si sia in preda a un raptus. Pianificarlo è un'altra cosa. Scatta l'autodifesa, per me è stata la scintilla che mi ha dato la sveglia. Ho capito che la vita non è solo bianca o nera, ma piena di colori in mezzo e va vissuta in qualsiasi condizione».
In «Apnea» affronti il tema del sesso, punto «nodale» nella vita di un disabile.
«I disabili fanno sesso come tutte le altre persone. Non mi sta bene che vengano considerati asessuati. Per questo mi batto per l'assistenza sessuale dei disabili. Per quanto mi riguarda, il mio è diventato un sesso molto mentale. Non sentendo nulla, io provo piacere nel piacere del partner. E' qualcosa
che s'avvicina molto al piacere femminile ed è meraviglioso. Provo degli orgasmi piacevoli tanto quanto quelli che provavo prima. Ma ho dovuto scoprirlo pian piano. Il sesso si fa con le parole, con le situazioni. A me è capitato, dopo l'incidente, di fare sesso con donne di cui non m'interessava alcunché ed è stato solo vedere qualcuno fare ginnastica sul mio corpo».La prima cosa che hai scritto, quando hai potuto è stata: «Libertà di pensiero è libertà di movimento».«La fantasia è tutto. Soprattutto nella mia condizione. All'inizio le mie fughe dalla realtà erano necessarie. Adesso continuano, ma vanno a finire su carta».
Quindi, vuoi diventare uno scrittore a tutti gli effetti?
«Vorrei. Ma so che al secondo libro tutti mi aspetteranno al varco: uscirà nei primi mesi del 2014, non sarà un romanzo, ma un resoconto di un'ottantina di pagine legato ancora a me e alla mia disabilità. E ho già cominciato a scriverne un terzo che, invece, sarà un romanza di pura fantasia senza riferimenti alla disabilità». Twitter @volevofare @mariellacaruso