La discendenza dell’acqua
Lucio Figini
Cicorivolta edizioni
© 2011 in copertina, “Warry”, acrilico e collage su carta, by Andrea Tarli
Una bambina senza sorriso può fare tutta la differenza del mondo.
Ariel ha undici anni, uno sguardo da adulta e non vuole o non sa parlare. Nessuno conosce il suo vero nome né la sua provenienza. È un misterioso dono del mare, trovato accartocciato in un angolo nei bagni della stazione di Sestri Levante.Francesco ha quarant’anni e vive in una Pavia nebbiosa e romantica. È un uomo che ha rinunciato alle proprie sicurezze. Si direbbe l’antieroe che circostanze eccezionali porteranno a essere un improbabile paladino.
Tra le strade di una città di pianura e i carruggi nascosti di una cittadella marittima, si svolge la storia di un incontro.
Un educatore che s’inventa investigatore per trovare nel passato di una bambina silenziosa la chiave per concederle il futuro.
Gli si aprirà un sottobosco sinistro, costellato di loschi figuri, aliti di spaesamento e sensazioni significanti.
Lucio Figini, classe 1971, Educatore professionale, è laureato in Scienze Sanitarie. Lavora da 14 anni in ambito psichiatrico e socio educativo. Ha pubblicato una raccolta di poesie giovanili, Essere sotto le parole (Montedit, 2001) e un romanzo, Autobiografia di uno sconosciuto (Arduino Sacco Editore, 2009).
“La discendenza dell’acqua” – Cicorivolta edizioni – collana i quaderni di Cico – ISBN 978-88- 97424-01-7 – pp.147 – € 12,00
Brano tratto da “La discendenza dell’acqua”
Pavia annega nella nebbia. Eppure l’inverno vero non è ancora iniziato.
La macchina sembra un’isola ghiacciata. Salgo e metto in moto. Raggiungo la comunità in orario e la vedo: una bambina vestita di rosso, nel sedile posteriore di una Opel Corsa bianca parcheggiata vicino all’entrata. Due donne stanno fumando, una con il braccio fuori dal finestrino.
Non appena entro, vengo intercettato dal mio responsabile dottor Mauri.
- Sono in sala riunioni, – dice allontanandosi – dovrebbe arrivare un’assistente sociale di Genova o dintorni per un inserimento.
- Buongiorno – rispondo ironicamente.
Le due donne superano la soglia senza incertezze, una tiene per mano la bambina. Possono avere fra i trenta e i cinquant’anni. La più giovane, dai fianchi straripanti, si rivolge a me: – Barbara, assistente sociale, lei è la dottoressa Orti, Franca Orti, abbiamo un appuntamento con il responsabile di struttura, il dottor Mauri.
- Sì, vi sta aspettando in sala riunioni – rispondo e dimentico di presentarmi.
La bambina è immobile, nascosta tra le gambe rotonde di Barbara, indossa un vestito rosso troppo voluminoso, dalle spalline sottili escono braccia minuscole. Ha i capelli cortissimi, quasi rasati. Mi guarda senza parlare, mi esamina è il termine più adatto. Ho la sensazione di conoscerla, o meglio, di conoscere i suoi genitori, adulti con lineamenti simili.
A invadermi sono i suoi occhi, occhi da grande in sguardi di bambina, posseggono qualcosa di familiare che non so afferrare.
Non sorride, non parla, sembra non essere presente, forse intuisce che da quel momento in poi sarò la persona che si occuperà di lei, o meglio, dei suoi bisogni primari: dormire e mangiare.
Mi vedo attraverso i suoi occhi: un quarantenne con ancora qualche sembianza da ragazzo, lunghi capelli tra il biondo e il bianco, un corpo alto, magro e nervoso.
Una voce mi raggiunge nonostante sia lontano mille miglia: – Francesco, accompagnale per cortesia e rimani con noi. Chiama Cristina per occuparsi della bambina, per un giro panoramico della struttura.
È il mio capo. Devo essere presente per definire l’inserimento, a quanto pare immediato, ricevere le informazioni necessarie e attivarmi per far sistemare una stanza per la nuova ospite. Non ho mai capito perché le persone si fidano di me.
Sembra che, nonostante la misantropia, alla fine faccia precisamente ciò che deve essere fatto.
Questo pareggia il difficile rapporto con i colleghi, la loro monotonia il più delle volte m’infastidisce. Continuano a emettere fiato, a parlare di quanto il nostro responsabile sia stronzo, degli orari disumani, dello straordinario non pagato, di cosa avrebbero fatto se la vita non li avesse portati dove ora sono. Vociano di contratti, donne, uomini, sesso, calcio.
I ragazzi invece non sono mai banali. Bisogna interpretarli oppure t’insultano.
Nulla di personale, ma con le persone è come guardare negli occhi e vedere oltre, quasi fossero esseri trasparenti, vetri leggermente appannati da parole banali.
Spesso mi chiedo come faccia il mondo a essere così vuoto, così maledettamente simile a una giostra per bambini, dove tutti, con movimenti sempre identici, cercano di raggiungere un codino sventolato sul naso, con l’illusione che prima o poi toccherà loro.
In realtà l’uomo è solo uno dei finti cavalli a dondolo, obbligato nello stesso movimento, perennemente.
- Accomodatevi – sussurra il dottor Mauri indicando le sedie, rivolto alle due donne.
Affido la bambina a Cristina faticando non poco. Insiste nello stringermi la mano ed io non voglio lasciarla andare.
- Lui è Francesco, l’educatore che si occupa dell’inserimento dei nuovi ospiti nella nostra struttura e della supervisione dei progetti individuali.
Faccio un cenno di assenso con la testa.
Barbara, assistente sociale dell’ASL di Genova, mi porge la mano e così anche la dottoressa Orti, neuropsichiatra, seduta di fianco a lei.
- La ringrazio per aver accettato un inserimento con così poco preavviso e senza le informazioni necessarie. È abbastanza urgente.
Anche la dottoressa annuisce e conferma.
Barbara sembra in imbarazzo.
- Non c’è molto da dire, purtroppo, si tratta di un caso inusuale. Non abbiamo informazioni che riguardino la storia biografica della bambina, pochi elementi rispetto la sua condizione psichica ed emotiva. Sappiamo solo che è in buona salute, in base ovviamente agli esami medici.
- Direi di partire dall’inizio, se non le spiace – il dottor Mauri sfoggia un sorriso accogliente, la sua arma migliore.
- Un agente della polizia ferroviaria ha trovato la bambina accovacciata in un angolo del bagno della stazione di Sestri Levante, nascosta tra un lavandino e il ripostiglio delle scope, i primi di settembre.
Traffica con una borsetta di marca e ne trae una cartella: – Precisamente la sera dell’otto settembre, verso le venti e quarantacinque. Era completamente inzuppata, aveva i capelli rasati, sporca e con ecchimosi varie sul viso e sul corpo. È stata chiamata subito un’autoambulanza. Non sembrava avere danni fisici e nulla faceva presumere violenze sessuali. Una bambina sana, almeno dal punto di vista fisiologico, a parte il fatto che non parlava.
Barbara aggiunge che ovviamente non aveva documenti e la polizia non aveva fornito informazioni di bambini scomparsi che riguardassero la Liguria o le regioni limitrofe.
- Le forze dell’ordine sono in alto mare, non sappiamo neppure se Ariel è italiana o straniera, in attesa di scoprire il suo vero nome è così che l’abbiamo chiamata.
- Dal punto di vista psicofisico sono stati fatti accertamenti e valutazioni? Mi riferisco sia al mutismo che a presumibili disabilità o deficit psichici – chiede il dottor Mauri, osservando il quadrante dell’orologio appoggiato sul tavolo.
È una vecchia abitudine. Non che abbia fretta o debba gestire i tempi della riunione, come avevo pensato nei primi anni di lavoro, ma semplicemente ama gli orologi. La lancetta dei secondi si muove senza incertezza o errore, con un metodico movimento, come un compagno di viaggio attraverso fiumi di parole, intuizioni, conclusioni. Tutto questo gli dona un senso di sicurezza.
Prende la parola la dottoressa: – È stata ricoverata una settimana nel reparto di medicina dell’ospedale di Genova, poi trasferita nel reparto neuropsichiatrico, per tre settimane circa. Come detto in precedenza non sono state riscontrate malattie in corso, escluse anche epatite, aids o altre patologie. Per quanto riguarda l’aspetto psicologico è tutta un’altra faccenda.
È una donna trasandata, ma con semplicità. Sembra non imporsi un gusto particolare. Magrissima, capelli lunghi raccolti da un mollettone, uno spolverino nero corto che copre la gonna al ginocchio. Le parole vengono sussurrate, le labbra quasi non si muovono.
- Deve aver subito uno o più traumi emotivi. Non sono state possibili valutazioni psicologiche e non sappiamo se presenta lacune a livello cognitivo. Ariel non ha mai parlato né scritto da quando è stata trovata. Il problema principale sembra essere la sua totale chiusura a ciò che la circonda. Collabora con chi si occupa di lei, senza comunque essere partecipe nella relazione. Il suo sguardo… il suo sguardo è presente, ma nello stesso momento distante.
- Avete escluso la presenza di componenti autistiche?
- Non abbiamo escluso nulla. Il nostro invio in questa struttura è anche mirato a esami specifici. Posso solo dire che pur essendoci un’assenza di volontà di entrare davvero in relazione con l’altro, il contatto oculare è sempre presente, invasivo, penetrante. Questo mi fa pensare a un altro tipo di problema, non all’autismo.
La dottoressa Orti abbassa lo sguardo e aggiunge che Ariel sembra così presente nel reale, quasi troppo per la sua età e, insieme, così disinteressata da tutto e tutti. Si comporta come un robot. Si muove e ubbidisce agli ordini, senza mai concedere un sorriso.
- Mi creda, la sua originale storia, il non sapere chi è, da dove viene, la sua età… ha colpito molto le infermiere del mio reparto. È stata coccolata e accudita come mai ho visto in questi anni, eppure non ha reagito in alcun modo. Non una parola o un sorriso – sembra scoraggiata.
- Caso interessante sia dal punto di vista medico che umano. Le vorrei solo ricordare che la nostra struttura è socio-educativa, benché tra i nostri ospiti ci siano minori con diversi tipi di problematiche, anche psichiatriche.
- Non si preoccupi, – interviene Barbara – ci siamo indirizzati a voi perché riteniamo che la bambina possa essere idonea a una struttura con le vostre caratteristiche.
L’intuito mi dice che per arrivare a Pavia, partendo da Genova, i servizi non devono aver trovato troppa disponibilità nelle comunità vicine.
È una bambina senza identità, senza voce, senza sorriso, alla quale è stato affibbiato il nome Ariel. È stata trovata inzuppata in un bagno della stazione, quasi fosse una sirenetta di una fiaba finita male.
Non è un caso comune.
Ho acquisito una certa dimestichezza con le stranezze della vita, in dieci anni ne ho sentite di ogni. Sotto la pelle mi sono entrati abusi, abbandoni, indifferenze, follie, fantasmi che mi hanno regalato una pericolosa neutralità verso i fatti della vita.
Ma Ariel chi è? Come si è materializzata senza rumore e senza passato?
- Mi ero quasi scordata un particolare importante. Presenta una forma di rituale compulsivo verso l’acqua. Si lava spessissimo mani e viso, anche quindici o più volte al giorno, rifiuta sapone o detergenti. Credo che in parte le ecchimosi del viso se le sia procurate per sfregamento – conclude la dottoressa, sistemandosi occhiali troppo voluminosi per il suo viso.
(…)
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