La discriminazione negli stadi: Atto II (Le Norme “orfane”). Conviene ancora abbonarsi?

Creato il 16 ottobre 2013 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

Prosegue l'analisi di Federsupporter sulle recenti discussioni in tema di chiusura degli stadi. Anche questa volta l'Avv. Massimo Rossetti si concentra sul soggetto che dovrebbe essere prioritario: il tifoso.

Ma è così?

  

Il Presidente dell’UEFA, Platini, ha dichiarato, il 9 ottobre scorso, che

Non esiste l’argomento discriminazione territoriale. Su queste cose decide la FIGC. A chi spetta trovare le soluzioni? Ai politici ed alle Associazioni Nazionali. Sono problemi sociali , non spetta a noi decidere se chiudere uno stadio o no. Non sono un carabiniere. L’UEFA non chiude nessuno stadio”

Eh no ! Monsieur Platini. Lei non può cavarsela così.

L’art. 14  del Codice Disciplinare UEFA prevede la sanzione “minima” della chiusura parziale dello stadio e, in caso di recidiva, la gara a porte chiuse, qualora i sostenitori di un club insultino “la dignità umana di una persona o di un gruppo di persone con qualsiasi mezzo, anche (o ivi inclusi) per motivi legati al colore della pelle, alla razza, alla religione od origine etnica”.

Laddove non ci si limita affatto a vietare e punire solo gli insulti razziali, religiosi o etnici, poiché l’elencazione di questi ultimi è preceduta da quel “anche” o da quel “ivi inclusi”, la qualcosa comporta che è vietato e sanzionato qualsiasi insulto della dignità umana, persino di una sola persona.

Ne consegue che l’inclusione da parte della FIGC nell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva (CGS) della “offesa, denigrazione o insulto“ legato  “all’origine territoriale”, oltreché per motivi di “razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica”, deve considerarsi un meno rispetto al più stabilito dalla UEFA e non viceversa.

Che, poi, la FIGC, nel caso in esame, abbia voluto fare “la prima della classe” ed abbia voluto essere  più realista del re” è un altro paio di maniche.

Il Presidente dell’UEFA, quindi, non può fare il “Ponzio Pilato”, cercando di scaricare su altri la responsabilità del problema che si è venuto a determinare.

Lascia, peraltro, stupefatti il coro di meraviglia e di indignazione di molti Presidenti e rappresentanti di società, tra i quali l’Amministratore Delegato del Milan, Galliani, che ha affermato: ”Se è una norma di buon senso lo lascio decidere ai lettori. Non si capisce perché queste norme ci siano solo in Italia” .

E qui si impone subito una domanda.

Dove erano e che cosa facevano i Presidenti o gli Amministratori delle società, dove era e che cosa faceva il Presidente della Lega Calcio di Serie A , dove era e che cosa faceva il Consigliere Federale in rappresentanza della predetta Lega quando in FIGC, a seguito di quanto stabilito nel maggio 2013 dall’UEFA, è stato introdotto il divieto e la sanzione della “offesa, denigrazione o insulto per motivo di origine territoriale” ?

Lasciano, in specie, interdetti alcuni passi della lettera del Presidente della Lega Calcio di Serie A , Beretta, inviata al Presidente della FIGC, Abete, pubblicata sul sito della predetta Lega.

In essa si parla di

effetti perversi, o quantomeno inizialmente non previsti o sottovalutati, delle modalità di applicazione dei nuovi articoli del Codice di Giustizia Sportiva modificati e /o introdotti nei mesi scorsi, in materia di lotta al razzismo e recepimento delle relative norme UEFA.

Parole che la dicono lunga sulla competenza e capacità della Lega di comprendere e valutare tempestivamente  le modifiche apportate.

Si prosegue nella lettera affermando che ne è scaturita una

gamma molto ampia di manifestazioni che il Codice di Giustizia Sportiva riconosce come discriminatorie (molto più ampia, per intenderci, di quelle contemplate dal Codice Disciplinare dell’UEFA).

La qual cosa, come si è dimostrato in precedenza “per tabulas”, smentendo il Presidente dell’UEFA, non è vera, perché, al contrario, la discriminazione contemplata dal Codice Disciplinare di quest’ultima è, almeno dal punto di vista letterale, ben più ampia ed omnicomprensiva di quella, pur recentemente ampliata, prevista dal Codice della FIGC.

Pienamente condivisibile è, invece, l’affermazione secondo cui la recrudescenza di chiusure, totali o parziali, di stadi è “ben lungi dall’aver costituito un elemento di deterrenza, rischiando “di diventare un elemento di sfida aperta verso le istituzioni o,peggio, di ricatto esplicito nei confronti delle società” .

Peccato, però, che la Lega se ne sia accorta solo ora, forse perché, questa volta, è stata colpita una di quelle società un po’ “più uguali” di altre ? .

Tra le soluzioni, invocate nella lettera, manca l’indicazione specifica di quella che, a mio parere, può risultare la più efficace e di più immediata ed agevole realizzazione, evidenziata nelle note del 26 novembre 2012, trascritte in quelle del 9 ottobre scorso, consistente nella organizzazione, da parte delle società, di speciali gruppi di spettatori, collocati in tutti i settori dello stadio, con il compito di esibire immediatamente striscioni ben visibili e di intonare cori ben udibili contro il razzismo e discriminazioni di ogni tipo, non appena altri gruppi di tifosi dovessero ostentare, in forma visiva od orale, forme di razzismo o di discriminazione.

Evidentemente la novità introdotta nell’art. 11 del CGS della FIGC è una di quelle norme “orfane”, di cui sono e rimangono ignoti il padre e la madre, anzi, per non essere “politically incorrect”, il genitore 1 e il genitore 2.

Nella dottrina e nella giurisprudenza penale relativa ai reati in materia di razzismo o di discriminazione non mi risulta si rinvengano né la nozione né la fattispecie di offesa, denigrazione o insulto a motivo di origine territoriale.

Né è possibile, a mio avviso, fare rientrare tali nozione e fattispecie nell’ambito di un insulto sulla base di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sull’origine etnica.

Il concetto e la definizione di etnia appartengono alla scienza antropologica che, sia pure con continue evoluzioni e adattamenti, identifica l’etnia in un raggruppamento umano, distinto dagli altri, in funzione di criteri razziali, linguistici, culturali che si esplicita in codici simbolici (sangue, sperma, razza, rapporti sessuali, riproduttivi), nella lingua, che esprime processi storici e rappresenta livelli di identità socio-culturale, a loro volta espressione di rapporti di potenza e di forza.

Appare, perciò, difficile, per non dire impossibile e persino un po’ grottesco, che gli insulti espressi fra tifosi durante una partita di calcio in relazione all’origine territoriale (romani vs livornesi, bergamaschi vs milanesi e/o romani e, viceversa) possano farsi rientrare nella categoria di offese e denigrazioni caratterizzate da odio razziale o etnico.

Quanto sopra a meno di non voler ritenere opposte tifoserie, appartenenti a diversi territori del nostro Paese, alla stregua di diverse “etnie” o di diverse “entità tribali”, nell’accezione, sopra descritta, che la scienza antropologica attribuisce al concetto ed alla nozione di “etnia”.

Quello che và fatto al più presto è eliminare dall’art. 11 del CGS della FIGC qualsiasi riferimento alla “origine territoriale”, prendendo spunto dalle dichiarazioni  del Presidente Platini, secondo il quale nella normativa UEFA “non esiste l’argomento discriminazione territoriale”  e “ queste cose le decide la FIGC”,  anche se non è vero che, come sanno bene, per esempio, i tifosi della Lazio, “l’UEFA non chiude nessuno  stadio“.

È auspicabile, pertanto, che a nessuno venga in mente, come pure è stato prospettato, di mantenere nell’art. 11 del CGS il riferimento alla “origine territoriale”, limitandosi a circoscrivere la sanzione applicabile alla sola chiusura di un settore dello stadio.

Quid juris e quid facti se gli insulti basati sulla predetta origine provenissero da più settori, magari mediante “opportune” trasmigrazioni di gruppi di tifosi da un settore ad un altro?

V’è da augurarsi che, almeno questa volta, i “legislatori” del pallone siano meno distratti, superficiali, “ pierini” del solito e riescano a meditare.

Un problema strettamente connesso alla chiusura, parziale o totale, di stadi è quello rappresentato dalle conseguenze di tale chiusura sugli abbonati.

La questione era stata già da me affrontata nelle note del 28 agosto scorso “ Chiusura di settori dello stadio : pagano gli abbonati”, consultabili sul sito.

In dette note mi soffermavo, in particolare, sui profili di nullità delle clausole, contenute nelle condizioni di abbonamento unilateralmente predisposte dalle società, che escludono qualsiasi responsabilità di queste ultime nei casi della disputa di gare casalinghe a porte chiuse o di chiusura di taluni settori dello stadio, salvo che tali provvedimenti siano dovuti a responsabilità diretta della società stessa, accertata con sentenza dell’Autorità Giudiziaria passata in giudicato.

Nullità sancita dall’art. 36 del Codice del Consumo, la cui ratio consiste nella volontà di proteggere il consumatore comune quando acquista beni o servizi da una impresa, rispetto  alla quale non dispone, come nel caso di chi acquista un abbonamento, di alcun potere contrattuale e di alcuna competenza e capacità professionali di prendere coscienza e di negoziare singole clausole o elementi di clausola che limitino la responsabilità del venditore.

Evidenziavo, altresì, che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, su denuncia dei consumatori interessati, verificata la vessatorietà delle clausole o degli elementi di clausola suddetti, inserite nei contratti che, come gli abbonamenti, si concludono mediante adesione a condizioni generali, a moduli, modelli o formulari predisposti dalla parte venditrice, ne accerta la nullità (art. 37 bis del Codice del Consumo).

Né, a mio parere, l’esonero da responsabilità delle società nel caso di chiusura, parziale o totale, di stadi, derivante da provvedimenti disciplinari sportivi, può essere ritenuta una fattispecie di impossibilità del compimento di una prestazione per “fatto del principe”, consistendo quest’ultimo in un atto di una Autorità sovrana.

Pur, infatti, volendo considerare una “Autorità sovrana”  gli Organi del CGS della FIGC, nonché gli omologhi Organi dell’UEFA e della FIFA, tuttavia, i provvedimenti disciplinari di chiusura,  totale o parziale, di stadi non possono essere qualificati come atti indipendenti dall’obbligato ed esenti da qualsiasi sua responsabilità.

Gli ordinamenti sportivi, nazionali ed internazionali, prevedono che i club sono oggettivamente responsabili dei comportamenti dei propri tifosi e che, quindi, ne devono rispondere a tutti gli effetti, non esclusi quelli nei confronti dei propri abbonati non riconosciuti autori di comportamenti illeciti.

A diversa conclusione si potrebbe pervenire, qualora la chiusura in parola fosse determinata da provvedimenti amministrativi delle Autorità di Pubblica Sicurezza.

Anche se, pure in questo caso, sempre a mio parere, si dovrebbe distinguere tra provvedimenti di chiusura adottati in via preventiva e precauzionale e provvedimenti adottati con finalità repressive.

Nel secondo caso, infatti, si potrebbe sostenere la tesi secondo cui la chiusura sia comunque da addebitare a responsabilità di natura omissiva della società che, a propria volta, sia stata la causa del provvedimento emanato dall’Autorità di Pubblica Sicurezza.

È opportuno precisare che la responsabilità delle società fin qui esaminata ha natura diversa dall’eventuale illegittimità di provvedimenti disciplinari comminati dagli Organi del CGS della FIGC: illegittimità sotto il profilo della violazione di principi generali di ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, fatti valere o da far valere dinanzi ai predetti Organi e, con ogni probabilità, dinanzi al competente Giudice Ordinario Amministrativo (TAR del Lazio).

A questo proposito, si ha notizia di una iniziativa in corso da parte di alcuni Avvocati a tutela di un gruppo di abbonati del Milan.

Aggiungasi che qualche club (da ultimo, la Lazio), allo scopo di incrementare la vendita di biglietti per determinate partite, offre tali biglietti a prezzi largamente scontati (sconti del 50% o 30%), nettamente inferiori a quelli che, per la stessa o per le stesse partite, hanno corrisposto gli abbonati.

Si tratta di iniziative che, seppur comprensibili nell’ottica della ricerca di incrementare la vendita di biglietti che negli ultimi anni ha registrato e registra mediamente notevoli cali, penalizza, però, iniquamente gli abbonati.


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