Uno dei bisogni fondamentali dell’artista è dar forma o espressione compiuta al suo mondo poetico interiore, che si sostanzia del mondo effettuale entro il quale l’artista opera e vive: perciò la sua ricerca non si estranea mai dagli interessi del mondo, che diventano i punti di contatto con il suo destinatario. La forma non è un involucro con il quale avvolgere quel mondo: la forma corrisponde al suo mondo poetico. In questa prospettiva si possono collocare i grandi romanzieri del Novecento, da Musil a Joyce, da Mann a Kafka, da Svevo a Gadda: ognuno di loro, nel dar vita alle loro creazioni poetiche, ha manifestato disagio e sofferenza all’interno della forma-romanzo. Possiamo infatti dire che proprio gli anni Venti rappresentano per la storia della forma-romanzo gli anni cruciali della sua crisi: sembra che proprio nella torsione di quegli anni l’esistenza stessa del romanzo, la sua vitalità fossero irrimediabilmente messe del tutto in discussione. Nel ‘22 Joyce aveva pubblicato L’Ulisse, e aveva alle spalle una raccolta di epifanie (I racconti di Dublino) il romanzo metabiografico Ritratto dell’artista da giovane. Se quelle prime esperienze letterarie di Joyce potevano ancora rientrare nei moduli narrativi del romanzo, altrettanto non si poteva dell’Ulisse, che li trascendeva e li dilatava in modo irreversibile. L’Ulisse apriva nella storia del romanzo orizzonti nuovi, e nuove esperienze suggeriva agli scrittori. Musil da parte sua nell’Uomo senza qualità faceva travalicare alla filosofia i confini e dilatava lo spazio narrativo verso nuove dimensioni gnoseologiche (qualcosa del genere accadeva in Italia con Gadda). Gadda gettava in Italia le basi del romanzo sperimentale, intorno al quale s’arrovellò anche l’ultimo Elio Vittorini. Lo stesso discorso si potrebbe fare nei confronti della Coscienza di Zeno di Italo Svevo, che frantuma i tempi dello sviluppo narrativo dislocandoli su diversi piani. In altri luoghi viveva Kafka, eternamente insoddisfatto dei suoi tre “romanzi”, che non ebbe la capacità di portare a termine, e non certo per mancanza di ispirazione. Thomas Mann aggrediva dall’interno la forma-romanzo, e raggiunse un equilibrio artistico in virtù di una perenne ambiguità tra il fare e il disfare dell’opera letteraria. Non a caso l’ultimo Mann è sempre più orientata sulla parodia. Le ragioni della dissoluzione della forma-romanzo non si inscrivono tutte all’interno del discorso letterario. Alcune stanno nelle nuove teorie linguistiche ed epistemologiche che avanzano all’inizio del nostro secolo. Occorre difatti considerare l’opera di De Saussure e di Wittgenstein quando si discute della dissoluzione della forma-romanzo: si perde definitivamente la fiducia che il linguaggio possa rispecchiare la vita e la realtà dell’esperienza. Si comincia ad avvertire l’incapacità del linguaggio di contenere ed esprimere la complessità dell’esistenza in modo compiuto. La parole non appare più come quel potere arcano capace di richiamare in vita l’ordine razionale dell’essere di aristotelica memoria. Altre ragioni si trovano nella psicoanalisi di Freud, la quale ha dimostrato l’ambiguità della nostra coscienza: il nostro desiderio non sempre e non necessariamente coincide con la nostra volontà. Questa scoperta con gradi diversi di consapevolezza è stata fatta propria da alcuni scrittori della prima metà del secolo. Essi hanno avvertito nella loro opera come la nuova condizione umana portata alla luce dalla psicoanalisi fosse in contrasto con le illusioni e i miti nutriti dalla cultura dell’Ottocento. È la nostra coscienza a filtrare sotto l’impulso del desiderio le esperienze: i rapporti umani, gli oggetti della nostra esistenza, e noi stessi assumiamo connotati particolari in base ai desideri che vi proiettiamo. Spesso però questi desideri sono mistificati da una volontà che li maschera alla coscienza sublimandoli. Cosicché l’intera nostra esperienza risulta come deformata da questo processo mistificatorio. I piani della realtà dunque risultano essersi scomposti in tante e disarmoniche sfaccettature. La tradizionale forma-romanzo vorrebbe ricomporre questi piani in un’unica dimensione temporale e psicologica, e fornire alla coscienza del lettore una visione rassicurante dell’esistenza. La ricerca artistica, invece, partendo da questo dato, prende coscienza di questa dissoluzione e si avvia verso altre forme espressive. Anzi, possiamo dire che lo scrittore – non di mestiere – convive con questa crisi, l’assume come suo orizzonte di riflessione, non la ignora, ma la analizza e la indaga instancabilmente, non per superarla, ma per cercare in essa le ragioni del proprio essere, le sue motivazioni profonde.
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