Scritto da Cristian
Nei giorni convulsi delle consultazioni presidenziali per l’affidamento dell’incarico volto a formare un nuovo esecutivo non sempre il novero delle notizie segue il criterio della priorità attribuito alle vicende di natura politica.
O, per lo meno, tale criterio si deve ritenere più che legittimamente disatteso laddove si ritorna a parlare del futuro e del mantenimento in efficienza della istruzione pubblica.
Un esempio, in questa direzione, proviene da quanto si è recentemente appreso circa la possibilità che alcune scuole superiori introducano i test di ammissione come strumento di scelta selettiva dei nuovi studenti in ingresso nel mondo della scuola superiore italiana.
Tuttavia, ciò che in partenza appare contraddittorio è la motivazione suffragata: “sfoltire” il numero ritenuto eccessivo di studenti per classe, dando nel contempo la prevalenza ad un criterio di eccellenza nella selezione degli alunni in modo analogo a quanto già da anni si assiste per i test di ingresso universitari.
Favorire i giovani meritevoli o garantire una migliore gestione delle classi riducendo il numero degli alunni?. Un quesito a cui verrebbe naturale rispondere che in realtà non si addiverrà presumibilmente a nessuna delle due previsioni poiché, poi, il baricentro del ragionamento andrebbe sposato su altre logiche longitudinali.
Partendo dal dato costituzionale, la nostra Carta attribuisce un valore preminente e fondante al diritto allo studio avendone sancito con la previsione dell’art. 34 una diffusa e generalizzata realizzazione e garantendo, al contempo, alcune facilitazioni economiche per i più meritevoli attraverso la previsione lasciata al legislatore da attuarsi con legge dello Stato.
E’ un diritto soggettivo che trova il suo fondamento nel diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi economici, di raggiungere i gradi più alti degli studi nonché il dovere della Repubblica a rendere effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze da attribuire mediante concorso.
Fa eco, alle previsioni contenute nella Costituzione, un richiamo analogo operato dalla Carta dei diritti dell’uomo dell’Onu.
Ritengo fondamentale partire da qui per individuare nel progetto costituente quella che era una idea chiara nella ratio sottesa alla ricostruzione etica della società italiana nell’immediato dopoguerra: il dato della istruzione, obbligatoria e garantita, era imprescindibilmente legato alla necessità di rigenerare il tessuto sociale partendo dalla possibilità di garantire una istruzione diffusa per tutti e rinvenire le migliori eccellenze nel proseguimento degli studi con l’accesso all’università.
Storicamente, le riforme concepite nel ventennio fascista, marcatamente segnate dall’ideologia di fondo del regime, avrebbero dovuto trovare un superamento tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso attraverso il principio della estensione degli studi, la previsione della scuola media unica e una più diffusa alfabetizzazione delle zone – come il mezzogiorno di Italia – maggiormente piagate dalla mancanza di una istruzione minima accettabile.
Di fatto, tuttavia, la caduta del fascismo e l'avvento al potere delle forze democratiche comportarono un ripensamento del sistema educativo, teso a ridurre la dicotomia classista che ispirava l'ordinamento scolastico precedente. In molti casi, però, come in tanti altri settori della Pubblica amministrazione, alle intenzioni di riforma non seguirono fatti concreti, tanto che fino ai governi di centro-sinistra degli anni Sessanta anche nella scuola si seguì di fatto una linea di continuità con il periodo fascista, a livello di programmi e di struttura complessiva dello studio. Infatti, fu nel 1962 che venne elaborata la prima vera riforma della scuola: essa, abolendo la distinzione tra scuola media unica e avviamento professionale, istituiva una scuola media unica, mentre la legge dell'11 dicembre 1969 liberalizzava l'accesso universitario a ogni diplomato .
L'esigenza di una scuola in cui le diverse componenti avessero maggiore spazio e potessero contribuire al miglioramento della didattica diede origine ai decreti delegati del 1974, che istituirono gli organismi collegiali per la gestione democratica della scuola e introdussero la possibilità di sperimentazione, sia curriculare sia didattica, all'interno delle scuole di ogni ordine e grado.
Erano gli anni della industrializzazione del Paese e dal passaggio da una società agricola ad una industriale in cui il formarsi della classe media andava di pari grado con la necessaria diffusione di quella garanzia minima di sopravvivenza e di comprensione che solo l’istruzione poteva garantire.
Vi era un progetto sociale ed antropologico al quale tutti eravamo richiamati e ci sentivamo vicini per risollevare il Paese.
Anni senza dubbio difficili, i due blocchi contrapposti, la guerra fredda e la coda avanguardista armata rappresentata dallo scatenarsi del terrorismo in Italia tra gli anni ’70 e gli anni ’80.
E’ venuto meno quel progetto fondativo e l’idea di concentrarsi sull’elemento valoriale da attribuire alle giovani generazioni, punto di riferimento per l’avvenire di una nazione?.
Sembra di si. Un elemento concatenante lega le riforme giuslavoriste attuate nel segno marcato di una progressiva precarizzazione della esistenza – dal “libro bianco” di Marco Biagi alla riforma Fornero - ed uno smantellamento progressivo della scuola pubblica italiana. Precari nella scuola, probabilmente perché esclusi in partenza, e successivamente abbandonati tra la pletora delle 46 forme contrattuali che non garantiscono alcuna possibilità di continuazione all’interno del mondo del lavoro.
Può essere noioso il “vecchio posto fisso” - come qualcuno ha autorevolmente sostenuto - ma dantescamente infernale è l’esistenza senza la sicurezza lavorativa, privati della dignità di poter costruire attorno ad essa un progetto di vita di coppia. La precarietà a tempo indeterminato non rende allegri.
Le due problematiche si intersecano inevitabilmente perché la scuola è da sempre ed in ogni luogo il laboratorio sperimentale della vita ed è lì che ci si garantisce una formazione di base per affrontare la selezione operata dall’università, dal mondo del lavoro e dalla vita. Quelle sì, senza test di ingresso e spesso senza prove di appello.
Secondo l’Istat 52.000 ragazzi non hanno portato a termine l’anno scolastico nel 2012. Negli ultimi 10 anni gli italiani che non hanno proseguito gli studi dopo il conseguimento della licenza media inferiore sono il 19% del totale, una media drammaticamente più alta del trend europeo che si attesta intorno al 14%.
A guardare i numeri delle iscrizioni all’università è come se fosse scomparso un intero ateneo di grandi dimensioni. Il dato emerge da un documento del Cun (Consiglio universitario nazionale) e non è l’unico a far parlare di «emergenza nazionale» visto che il segno negativo compare anche accanto alle voci laureati, dottorati, docenti e, naturalmente, fondi.
Non va meglio sul fronte dei laureati: siamo largamente al di sotto della media Ocse (34/o posto su 36 Paesi) e soltanto il 19% dei 30-34enni possiede una laurea, contro una media europea del 30%. Il 33,6 % degli iscritti ai corsi di laurea è fuori corso e il 17,3% non fa esami. Al calo dei laureati contribuisce anche la diminuzione, negli ultimi 3 anni, delle risorse per finanziare le borse di studio: nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%.
L’emorragia non è solo di studenti. In soli sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22%. Nei prossimi 3 anni si prevede un ulteriore calo dei docenti di ruolo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7 (includendo sia i docenti strutturati che quelli a contratto).
Vi è in Italia una emergenza culturale da affrontare ma i programmi politici dei vari schieramenti spesso, troppo spesso, ne omettono il richiamo perché impegnati nelle logiche astratte delle alleanze, arroccati nella torre d’avorio posta sulla collina che domina dall’alto il Paese.
Se la proposta dei test di ingresso per l’accesso ai licei ed alle scuole professionali rappresenta un continuum con la destabilizzante riforma Gelmini - che in questi anni ha saputo infliggere dei colpi mortali al finanziamento all’istruzione - si elevi un monito da parte delle organizzazioni sociali ma soprattutto da parte dei suoi attori primari, gli studenti, rappresentanti del futuro del Paese e anima di quel rinnovamento civile da troppo tempo diffusamente evocato.
La fuga dei cervelli all’estero così come l’esodo generalizzato di tutti i precari sfiduciati ne hanno dato ampia dimostrazione. Noi tutti, cittadini interessati alla sorte dei nostri figli, dei nostri fratelli e dei nostri amici, dobbiamo prenderne coscienza. Sono argomenti che debbono interessarci tutti perché sarebbe auspicabile che il tempo della testa sotto alla sabbia al riparo da responsabilità troppo faticose fosse finito.
Cristian Curella