Molti, anzi diciamo l’80% degli italiani e probabilmente dei cittadini europei, pensa che la crescente diseguaglianza che aggredisce la radice della democrazia, sia dovuta ad errori, ad incapacità di un ceto politico subalterno ai poteri economici e finanziari, ad incompetenza e corruzione. Un quadro che a seconda dei Paesi, presenta una diversa composizione di elementi, ma che in ogni caso secondo la grande maggioranza delle persone e dei partiti o movimenti di riferimento, è correggibile, senza toccare gli assetti sociali ed economici di fondo.
Da questo punto di vista l’Italia è un caso di scuola: si è pensato che rimuovere Berlusconi e il suo coagulo di interessi sarebbe stato sufficiente a un ribaltamento etico, politico ed economico, tanto che gran parte della sinistra ha finito per spostare la sua battaglia dalle idee al personaggio, cadendo alla fine nell’aporia di approdare a una visione sociale assai vicina a quella della destra, sparando però cannonate sul cavaliere immorale e sui conflitti di interessi, senza però avere il coraggio e la determinazione di eliminarli. Così che oggi la sensazione di poter rimuovere chirurgicamente il tumore principale e le sue metastasi lasciando intanto tutto il resto, è patrimonio del Pd come del M5S, del governo come dell’opposizione. Purtroppo però così non è: c’è un dato di fondo della finanziarizzazione del capitale che rende sempre più socialmente statiche le società ad alto tasso di liberismo come Gran Bretagna e Stati Uniti e quelle come l’italiana che hanno conservato spiccate strutture familistiche e di clan appartenenti all’era anteriore ai lumi. La tabella più in basso lo dimostra dove si mostra che l’immobilismo sociale (in termini crescenti dal basso verso l’alto) si coniuga spesso al divario tra redditi (in aumento da sinistra verso destra).
Ricordate quando Berlusconi disse ridendo che per fare carriera una ragazza avrebbe dovuto sposare uno dei
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suoi figli? Una battuta infelice e tuttavia molto simile a quella che Balzac fa pronunciare a un suo personaggio in Pere Goriot: è molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. E di certo in una società di straordinarie diseguagianze e ancora assai poco meritocratica, come quella del 1834, era abbastanza ovvio. Solo che allora l’assetto economico era assai più simile a quello odierno che non a quello determinato in seguito dalle lotte operaie e in vigore fino agli ’80 del secolo scorso: “ il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.
Lo dice l’economista Thomas Piketty in un libro, Le capital au XXIe siècle, in cui esamina con puntiglio tutti i dati statistici disponibili da oltre 160 anni per concludere che “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot”. Ed è abbastanza intuitivo che sia così: se si guadagna di più traendo profitto dal denaro piuttosto che dalla produzione, quest’ultima diventa la cenerentola, viene delocalizzata dove si può sfruttare meglio la manodopera a basso costo e quando questo per qualche motivo non è possibile o poco opportuno, si cerca in tutti i modi di riportare il lavoro a condizioni di semi schiavitù, con pochi diritti e ancor meno salario. Non è nemmeno questione di buona volontà: è nella struttura di base che questa logica si impone. Così gli azionisti londinesi della miniera in Sudafrica non si fanno scrupoli a far sparare sui minatori in sciopero, com’è accaduto l’anno scorso: non fanno altro che interpretare lo spirito del tempo che rende il loro profitto intoccabile.
Per questo a me viene da ridere quando gli sciagurati fannulloni che allignano nella nostra politica provinciale si riempiono la bocca della parola “merito”: operano in un contesto in cui quest’ultimo è marginale o sporadico per definizione. Ma finché nella battaglia tra capitale e lavoro quest’ultimo non avrà riconquistato la sua posizione e non sarà tornato a combattere per i suoi diritti, il processo di passaggio tra la democrazia e oligarchia autoritaria in mano poteri forti, non è arrestabile. Non c’è web che tenga. E non è nemmeno possibile opporsi a meccanismi europei ormai in mano alla finanza con la complicità di alcuni Paesi, non è possibile arrestare il declino o lo sfascio nemmeno per considerazioni umanitarie come sarebbe il caso della Grecia e presto anche il nostro. E se è vero che gli interessi sul denaro fanno aggio sulla produzione, non si può nemmeno sperare che siano gli interessi e i profitti privati a innescare un cambiamento: solo lo Stato con i suoi investimenti potrebbe farlo. E difatti è proprio per questo che si sta impedendo loro di poter operare come volano di un riscatto del lavoro, anche qualora i ceti politici non fossero subalterni: la teoria dell’austerity e del debito pubblico serve proprio allo scopo di “disarmare” i bilanci, svendendo sul mercato la sovranità.
Se non si cambiano radicalmente questi presupposti sarà davvero impossibile cambiare le cose e dovremo arrenderci al nuovo Medioevo.