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La dittatura della brevità

Creato il 08 aprile 2010 da Antonio Maccioni

L’intermedialità viene intesa come connessione tra media, piattaforme tecnologiche e linguaggi distinti. Ovvero: c’è il piccolo schermo, ma c’è anche twitter, ci sono i testi di 140 caratteri ma pure l’opera completa di Nietzsche, e bisognerebbe far funzionare tutte queste cose bene e tutte quante insieme. Ne ha parlato Paolo Peverini in un working paper disponibile anche in Rete: si tratta di un breve prodotto del Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini” della LUISS.

Il dibattito sulla crisi dell’editoria avrebbe contrapposto i termini della densità, della brevità e del ritmo alla complessità dei mondi fatti di inchiostro e del libro. Lo sforzo interpretativo richiesto al lettore del romanzo sarebbe dunque contrapposto allo sforzo nullo dell’audiovisione distratta. Eppure la complessità semantica ed estetica non si dovrebbe identificare necessariamente con la brevità temporale: anche un piccolo spot pubblicitario potrebbe raggiungere una profondità insondabile. Dove starebbe dunque il problema?

Il problema potrebbe essere individuato nell’eccessiva esposizione alla brevità, una brevità ripetuta (dai video musicali agli sms ai twit) che tenderebbe a togliere il piacere delle forme complesse come per assuefazione. La quotidiana immersione nella brevità renderebbe difficile il rapporto col testo complesso. Così dunque: sul piano dei contenuti, come avrebbe reagito nel corso degli ultimi anni l’editoria?

Due sarebbero le principali reazioni dell’industria libraria all’interno di questo contesto: la prima reazione avrebbe tentato una mediazione tra l’oggetto libro e altre forme testuali considerate concorrenti e insidiose. Ovvero: i tuoi sms sono piccoli e pericolosi ed io stampo Proust e mi differenzio e mi difendo. In altri termini: stai fermo lì perché io faccio cultura.

La seconda reazione avrebbe guardato a un’ibridazione del romanzo con altre forme espressive e figlie del piccolo schermo e del web. Ovvero: ti faccio un libro di aforismi perché tanto riusciresti a leggere soltanto quello, ma così mi aiuti a foraggiare i lavori di quel critico letterario che non se li fila di striscio davvero niente e nessuno. Eppure in altri casi tale ibridazione potrebbe essere considerata alla base di una riformulazione profonda dello stile e del linguaggio.

La questione sollevata da Peverini nel 2008 è ad ogni modo ancora oggi al centro del dibattito. Ha di recente sostenuto Nicholas Carr:

Passando dalla pagina di carta allo schermo perdiamo la capacità di concentrazione, sviluppiamo un modo di ragionare più superficiale, diventiamo dei pancake people, come dice il commediografo Richard Foreman: larghi e sottili come una frittella perché, saltando continuamente da un pezzo d’informazione all’altra grazie ai link, arriviamo ovunque vogliamo, ma al tempo stesso perdiamo spessore perché non abbiamo più tempo per riflettere, contemplare. Soffermarsi a sviluppare un’analisi profonda sta diventando una cosa innaturale.


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