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La divinizzazione dell’uomo: da Agostino a Nietzsche

Creato il 20 dicembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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442px-Nietzsche187adi Michele Marsonet. Rispetto alla ciclicità storica del paganesimo, nella concezione cristiana della storia il tempo diventa lineare e carico di responsabilità per l’uomo, attore della storia benché guidato dalla divinità. Il fulcro della causalità storica subisce uno spostamento radicale dalla natura a Dio. La dottrina platonica degli archetipi eterni cede il passo alla creazione dal nulla; l’uomo è chiamato a collaborare con Dio al suo destino di salvezza, e Agostino poteva quindi affermare che col cristianesimo “sono rotti i cerchi” della fatalità.

Attraverso un processo di radicale immanentizzazione, sono poi sorte concezioni le quali hanno in comune l’idea che esistano soluzioni “definitive” ai problemi dell’umanità, che sia possibile scoprirle e realizzarle sulla terra senza fare alcun riferimento alla trascendenza. Queste idee sono comuni nelle opere di molti filosofi. I razionalisti del ’600, per esempio, ritenevano che le risposte fossero rintracciabili grazie a una speciale applicazione del “lume della ragione”. Gli empiristi del ’700 sostennero invece che i nuovi metodi scoperti dalle scienze erano in grado di introdurre un ordine anche nella sfera sociale. In realtà le “soluzioni finali” esistono soltanto nella mente dei filosofi. Rammentando che l’uomo è intrinsecamente fallibile, pare di gran lunga preferibile evitare di avventurarsi sul pericoloso sentiero che conduce a stabilire una scala di valori assoluti ancorati al piano puramente umano. La ricerca della perfezione, intesa in senso puramente mondano, è foriera di tragedie, e le cose non migliorano se autore della ricetta è un idealista sincero. Lo riconobbe Immanuel Kant pronunciando una celebre frase: “Dal legno storto dell’umanità non si è mai cavata una cosa dritta”.

I sogni di perfezione terrena sono sempre legati a quelli di una redenzione globale, da realizzarsi qui, nel nostro mondo terreno. Si finisce col postulare una vittoria finale della ragione, che condurrebbe a un’armoniosa collaborazione universale e all’inizio della “storia vera”. Se analizziamo bene tutte le concezioni che puntano alla redenzione globale sulla terra, non tardiamo a capire che si basano su una antropologia filosofica che non tiene conto dei nostri limiti intrinseci. La questione dei limiti della natura umana riveste un’importanza fondamentale, in quanto ci consente di mettere a nudo alcune insufficienze di fondo: il mancato riconoscimento che gli esseri umani sono inevitabilmente portati a compiere errori di valutazione e, per di più, sono spesso incapaci di riconoscerli; il non tener conto del fatto che essi mai possiedono una conoscenza “completa” di tutti i fattori che contribuiscono a determinare l’ambiente in cui si trovano inseriti.

Quali, dunque, le origini dell’Utopia intesa come progetto di “redenzione globale” – e terrena – dell’umanità dal suo attuale stato di imperfezione? In fondo, è una nostra tipica aspirazione quella che mira ad eliminare l’ingiustizia mediante la costruzione di un mondo migliore. Tale esigenza, in sé naturale e legittima, diventa tuttavia portatrice di tragedie quando si dimentica la nostra intrinseca limitatezza. Vi sono molte – e spesso insospettabili – affinità che collegano le concezioni utopiche. Se pensiamo alle eresie medievali, vediamo che con Gioacchino da Fiore si delinea un nuovo tipo umano: l’intellettuale che conosce la formula del riscatto dalle sventure del mondo e può quindi predire con esattezza il corso futuro della storia. Ma ancora più interessanti risultano ai nostri fini pensatori più vicini nel tempo come il padre del positivismo Auguste Comte, per il quale lo stato di perfezione è rappresentato dallo stadio finale della società industriale, diretta temporalmente dai managers e spiritualmente dagli intellettuali positivisti.

Erich Voegelin scrisse che il marxismo, al pari di altri movimenti di massa sorti sulla base delle elaborazioni concettuali di circoli intellettuali ristretti, è una variante dello “gnosticismo”. Innanzitutto il pensatore gnostico è insoddisfatto della sua situazione: le difficoltà che egli incontra vanno attribuite al fatto che il mondo ha una struttura intrinsecamente carente, e non già all’inadeguatezza di fondo degli esseri umani. L’ordine dell’essere si dovrà cambiare nel corso di un processo storico mondano, cosicché da un mondo cattivo sia possibile far emergere, per evoluzione storica, un mondo buono. Partendo da queste basi, egli elabora una dottrina che promette la salvezza dal male del mondo, e di qui a immaginare un ordine perfetto il passo è breve: si costruisce una formula che viene annunciata alle masse con atteggiamenti di tipo profetico, i quali ingenerano l’illusione che il creatore della formula salvifica conosca la strada maestra per far giungere l’umanità nella terra promessa della completa felicità.

L’atteggiamento gnostico conduce a un rovesciamento dell’idea cristiana di perfezione, della quale, tuttavia, esso è evidentemente tributario. Salvezza e perfezione, categorie che per il cristiano appartengono all’aldilà, vengono trasferite su questa terra. Siamo dunque di fronte all’eliminazione della distinzione che Agostino aveva tracciato tra “Città di Dio” e “Città dell’uomo”: la prima viene negata, ma soltanto con lo scopo di trasferire tutte le sue caratteristiche nella seconda. È un progetto di radicale immanentizzazione che, in quanto tale, si contrappone al pensiero cristiano. Lo gnostico ignora i limiti e si propone di superarli con un puro sforzo della volontà. Troviamo puntuale conferma di tale stato di cose nelle considerazioni di un marxista, pur non dogmatico, come il polacco Adam Schaff: “Sin dalla loro fase iniziale, i cervelli elettronici potenziano la funzione della memoria umana e varie altre funzioni dell’intelletto a tal punto da conferire un contenuto reale all’antico sogno dell’onniscienza. Nel contempo, l’uomo sta per penetrare il segreto della vita, lo sta strappando grado per grado alla natura. Passo per passo, è avviato alla creazione sintetica della materia vivente; ben presto sarà capace di rigenerare i tessuti biologici e di prolungare considerevolmente la durata della vita; i progressi della biochimica gli consentiranno di esercitare un influsso formativo sul sesso oltre che sui caratteri somatici e sulle cellule cerebrali del feto. Grazie a tali conquiste, l’uomo potrà ascendere al biblico trono di Dio e prenderne lo scettro”.

Eppure la costituzione dell’essere resta quella che è, oltre la portata della brama del pensatore.
È dunque essenziale rammentare che la realtà circostante non è destinata a cambiare in modo radicale per il semplice fatto che qualche filosofo o teorico politico la trova difettosa e cerca di fuggire da essa. O, ancor meglio, occorre intendersi sulla portata e sui limiti di ogni possibile mutamento, senza pretendere di piegare totalmente il mondo alle esigenze di astratti schemi intellettuali. Il tratto distintivo di ogni pensiero utopico radicale è costituito proprio dalla preminenza dello schema astratto sulla realtà delle cose. Negli scritti marxiani troviamo il concetto di “autocreazione” che implica l’autoemancipazione; l’uomo è il punto di partenza e il punto d’arrivo: al di fuori di lui, nulla è realmente. Il mondo nuovo, dunque, sarà il mondo creato dall’uomo nuovo, che assume sulle sue spalle il peso del proprio destino, cosciente del fatto che è lui, e soltanto lui, a creare il mondo, la società e la storia. Egli andrà incontro, fiducioso e ottimista, alla nuova storia, alla nuova società giusta e perfetta.

La divinizzazione dell’uomo si può ritrovare in altri autori che almeno in apparenza sono incompatibili tra loro. Anche in Nietzsche, per esempio, lo spirito vuole sentirsi padrone, senza limiti che non siano quelli da lui stesso fissati. Alla realtà effettuale dell’essere, che l’uomo trova in gran parte già costituita, viene sostituita una seconda realtà, immaginata dal pensatore. I filosofi di questo tipo sono preda di una sorta di “complesso di Prometeo”, che li conduce a ignorare i limiti strutturali della natura umana. Si manifesta nel loro pensiero un “titanismo” che li porta a trascurare la realtà come è per proiettarsi in una realtà come dovrebbe essere. François Furet notò che non si può capir nulla del destino dell’idea comunista nel XX secolo, se non se ne portano alla luce l’intima radice messianico-universalistica. Il comunismo non ha alcunché da spartire con la religione tradizionale. Non si affida alla trascendenza, anzi la nega. Per esso vale solo la terrestrità assoluta. Eppure, al fondo della sua concezione politica si cela il nocciolo di quella particolare religione di chi – non avendone più una – non rinuncia per questo a caricare storia e politica delle esigenze salvifiche, che un tempo erano rimesse a Dio.

Per conferire concretezza ai propri sogni di perfezione, l’utopista radicale è in pratica costretto a cancellare con un semplice tratto di penna i molti aspetti sgradevoli della natura umana: l’egoismo, il desiderio di prevaricazione sugli altri, la sete di potere. L’essere umano, da mera parte di un tutto che egli non può dominare, diviene artefice assoluto del proprio destino, sino a trasformarsi in un tipo ideale che nulla ha a che fare con l’individuo concreto. L’utopia è dunque trasferita nel concreto della storia umana, fondendo in un’unica sorte reale e ideale, città terrestre e città celeste; riducendo anzi questa città celeste alla prassi mondana dell’umanità. E quando la storia si vendica mostrando l’assurdità del progetto, l’utopista imputa il fallimento non a cause strutturali, bensì a errori compiuti nel perseguire il suo programma radicale. Abbiamo, insomma, una totale mancanza di umiltà basata sull’incapacità di analizzare, senza pregiudizi e in modo spassionato, la nostra natura limitata.

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