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La dodicesima carta è il sesto libro di Jeffery Deaver dedicato al criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme.

Creato il 09 ottobre 2012 da Rstp

la dodicesima cartaCon La Dodicesima Carta sono arrivate a sei le appassionanti indagini che vedono protagonisti Lincoln Rhyme e Amelia Sachs. Frutto della fantasia dell'americano Jeffery Deaver,

l'investigatore noto tanto per la sua quasi totale infermità quanto per i suoi metodi strettamente scientifici, si trova alle prese con un caso apparentemente vecchio di 150 anni: alla metà del 1800 risalgono i fatti che la sedicenne nera Geneva Settle sta studiando per una ricerca scolastica quando viene assalita nella biblioteca del Museo afroamericano di Harlem. Il tentativo di stupro, però, si trasforma presto in diversi e reiterati tentativi di omicidio. Il movente rimane inaccessibile, almeno fino al momento in cui, fra piste e indizi falsi, dal passato riemergono prove che contribuiranno a gettare una luce chiarificatrice sul passato della famiglia di Geneva, segnando definitivamente anche il presente e il corso del suo futuro

Lincoln Rhyme e Amelia Sachs sono tornati: la fatica annuale di Jeffery Deaver ha prodotto un nuovo thriller ambientato per lo più nel ghetto di Harlem, luogo in cui la partecipazione emotiva del lettore è così attivata da essere costretto a girare pagina velocemente, seguendo il ritmo incalzante degli eventi.

Non conosciamo il movente e neppure il mandante, ma l’assassino sì, fin dalle prime righe. Sappiamo come si chiama, come agisce, persino come ha trascorso la sua infanzia. Intuiamo i motivi che lo hanno reso così freddo e insensibile e capiamo che non si fermerà davanti a nulla. Conosciamo la vittima: una giovane nera che ha fatto dello studio l’unico mezzo per costruirsi un futuro diverso da quello che aspetta le sue compagne. E, naturalmente, conosciamo gli investigatori e i loro metodi. Non bisogna essere lettori troppo smaliziati per riconoscere uno schema predefinito: sono delitti e psicologie che abbiamo già incontrato, quelli descritti da Deaver.

Eppure ci sono particolari che rendono il romanzo in qualche modo diverso. L’intreccio costruito in modo che diversi piani narrativi si sovrappongano, creando più di un’illusione, il continuo variare delle prospettive e delle motivazioni all’origine dei delitti, i nuovi slanci che la trama conosce dopo ogni colpo di scena, cui si aggiunge il lieve ma significativo progresso delle facoltà motorie di Rhyme, sono tutti elementi che rendono La dodicesima carta una lettura appassionante fino all’ultima pagina: una nuova lezione, dalle caratteristiche tutte americane, su come possa essere intricato e insidioso il cammino che, comunque, porta sempre alla verità.

II volto bagnato di sudore e lacrime, l'uomo corre per salvar­si la vita.

"Eccolo! Eccolo là!"

L'ex schiavo non capisce bene da dove venga la voce. Dal­le sue spalle? Da sinistra o da destra? Dal tetto di una delle case decrepite che si allineano lungo queste sordide strade acciottolate? Nell'aria di luglio calda e densa come paraffi­na, l'uomo smilzo salta un cumulo di stereo di cavallo. I net­ turbini non arrivano qui, in questa parte della città. Charles Singleton si ferma presso un bancale con un'alta pila di bari­ lotti appoggiata sopra, tentando di riprendere fiato.


La detonazione di una pistola. Il proiettile si perde chissà dove. L'eco secca dell'arma da fuoco lo riporta di colpo alla guerra: quei momenti assurdi e folli in cui manteneva la sua posizione con indosso una polverosa divisa blu, puntando un pesante moschetto su uomini dalla polverosa divisa gri­gia, che a loro volta puntavano i fucili su di lui.
Adesso corre più veloce. Quelli sparano di nuovo. Anche stavolta mancano il bersaglio.
"Qualcuno lo fermi. Cinque dollari in oro per chi lo prende."


Ma i pochi già per strada a quest'ora, irlandesi per lo più, stracciaioli o operai che se ne vanno al lavoro con le piccoz­ze e i secchi per la calce, non pensano affatto a fermare il ne­gro, che ha lo sguardo feroce, muscoli grossi e una determi­nazione spaventosa. Quanto alla ricompensa, a offrirla a gran voce è stato un poliziotto, il che significa che la promes­sa non sarà mantenuta.

Una fotografia mostrava Charles Singleton a ventotto an­ni, con indosso la divisa della Guerra Civile. Era alto e aveva mani grandi. L'uniforme tesa sul petto e sulle braccia lascia­ va intuire muscoli possenti. Labbra grosse, zigomi alti, viso tondo e pelle molto scura.

Fissando quel volto serio, con quegli occhi calmi e pene­tranti, la ragazza credette di trovare qualche somiglianza tra sé e lui. Si riconobbe nei lineamenti dell'antenato, nella rotondità del viso, nell'intensa sfumatura della pelle. Tuttavia, del fisico di Singleton le era rimasto ben poco: come le ra­gazze di Delano Project amavano farle notare, Geneva Seattle era magra quanto un ragazzine delle elementari.

Riprese a leggere, ma un rumore la interruppe. Un click nella sala. Lo scatto di una serratura? Poi dei passi. Una pau­sa. Un altro passo. Poi silenzio. Geneva guardò dietro di sé, tuttavia non vide nessuno.

Provò un brivido, ma disse a se stessa che non doveva avere paura. Erano stati i brutti ricordi a innervosirla: le ragazze di Delano che la picchiavano nel cortile della Langston Hughes High School e quella volta che Tonya Brown e la sua banda delle St. Nicholas Houses l'avevano trascinata in un vicolo e massacrata di botte, tanto da farle saltare un molare. I ragazzi erano quelli che mettevano le mani addosso, quelli che faceva­ no gli stronzi. Ma era con le ragazze che scorreva il sangue.

Falla a fette. Falla a fette, la troia...
Ancora passi. Un'altra pausa.
Silenzio.

Non che il posto fosse per sua natura rassicurante. Buio, silenzioso, con un sentore di muffa nell'aria. E non c'era nes­sun altro, non alle otto e un quarto del martedì mattina. Il museo era ancora chiuso (i turisti erano a letto o stavano fa­cendo colazione), ma la biblioteca apriva alle otto. Geneva era fuori ad aspettare già da prima: moriva dalla voglia di leggere quell'articolo.

In quel momento occupava un cubicolo in fondo a una grande sala da esposizioni, tra manichini senza volto che in­dossavano costumi dell'Ottocento. Alle pareti erano appesi dipinti di uomini e donne dai cappelli bizzarri e di cavalli dalle zampe ossute.

Alle sue spalle galoppano gli agenti a cavallo. Altri ne ap­paiono davanti a lui, agli ordini di un poliziotto con l'elmet­to in testa, che brandisce una pistola. "Alt! Fermo dove sei, Charles Singleton! Sono il capitano Walter Simms. Sono due giorni che ti cerco."
D liberto obbedisce. Le spalle forti si incurvano, le braccia pendono lungo i fianchi, i polmoni si riempiono dell'aria umida e rancida che sale dal fiume Hudson. Charles è vicino agli uffici dei rimorchiatori. Lungo il corso del fiume, vede svettare gli alberi dei velieri, a centinaia, con la loro promes­sa di libertà. Si appoggia, ansante, alla grande insegna della Swiftsure Express Company e guarda il capitano avvicinarsi. Gli zoccoli del cavallo fanno un sonoro clop, clop, clop sul­ l'acciottolato.

"Charles Singleton, sei in arresto per furto. Arrenditi, o ti prenderemo con la forza. In un caso o nell'altro, finirai in ca­ ene. Se scegli la resa non ti verrà fatto del male. Se invece scegli di resistere ne pagherai care le conseguenze. A te la de­cisione."

"Sono accusato di un crimine che non ho commesso! "
"Te lo ripeto: arrenditi o muori. Non hai altra scelta."
"Nossignore, ne ho un'altra", grida Charles. E riprende la fuga, verso il molo.
"Fermati o spariamo!" intima il capitano Simms.
Ma il liberto si lancia oltre il parapetto del molo, come un cavallo che salta un ostacolo. Per un momento sembra sospeso in aria, poi precipita per una decina di metri e si tuffa nelle acque torbide dell'Hudson, mormorando alcune paro­le: forse una preghiera a Gesù, forse una dichiarazione d'a­more alla moglie e al figlio. Qualunque cosa sia, gli inseguitori non riescono a sentirlo.

Una ventina di metri più in là, il quarantunenne Thompson Boyd fece un passo verso la ragazza dopo essersi sistemato il passamontagna sulla faccia, con i buchi in corrispondenza degli occhi. Controllò che il tamburo del revolver non si in­ ceppasse. L'aveva già fatto prima, ma nel suo mestiere non si poteva mai essere sicuri. Rimise in tasca l'arma ed estrasse lo sfollagente dal taglio praticato nel suo impermeabile scuro.
Fra lui e il tavolo del lettore di microfiche c'erano gli scaf­fali di libri della sala dei costumi. Premette le dita infilate nei guanti di lattice sugli occhi, che quella mattina bruciavano più del solito. Batté le palpebre dal dolore.

Si guardò intorno di nuovo, per assicurarsi che la sala fos­se effettivamente deserta.
Non c'erano guardiani, né lì né al piano di sotto. Non c'era­ no videocamere di sicurezza né registri dei visitatori. Tutto be­ ne. Ma qualche problema logistico c'era lo stesso. Poiché nel­ la sala regnava un silenzio di tomba e Thompson non poteva avvicinarsi in silenzio alla sua vittima, il rischio era che la ra­ gazza, sapendo che c'era qualcuno nella sala, si mettesse in al­larme.

Perciò, dopo essere entrato in quell'ala della biblioteca e avere chiuso a chiave la porta dietro di sé, si era prodotto in una risata. Thompson Boyd aveva smesso di ridere da parec­chi anni. Ma era un artigiano che capiva il potere della risata e sapeva come impiegarlo a proprio vantaggio, nel suo lavo­ ro. Una risata, un saluto amichevole e il rumore di un cellu­lare che veniva chiuso l'avrebbero di sicuro tranquillizzata, lo sapeva.
Il trucco sembrava funzionare. Sbirciò oltre la lunga fila di scaffali e scorse la ragazza concentrata sullo schermo. La vide stringere i pugni nervosamente, mentre leggeva.

Fece per avvicinarsi.

Thompson sbirciò l'ennesima volta. La ragazza, era torna­ta a sedersi e stava leggendo uno dei libri, aperto in cima alla pila. Ne aveva una dozzina davanti a sé. Con il sacchetto in cui aveva messo preservativi, taglierino e nastro adesivo nella mano sinistra e con lo sfollagente nella destra, si avviò verso di lei.
Le si avvicinò da dietro: sei metri, cinque, trattenendo il respiro.
Tre metri. Anche se si fosse voltata di scatto, ora lui avreb­be potuto raggiungerla con un balzo, rompendole un ginoc­chio o colpendola alla testa.
Due metri, uno e mezzo...
Si fermò e depose il set da stupro su uno scaffale. Afferrò lo sfollagente di lucido legno di rovere con entrambe le mani e lo sollevò in aria. Fece un passo avanti.
La ragazza, intenta a leggere, non si era minimamente ac­corta del suo aggressore, ormai a un metro da lei. Con tutte le sue forze, Thompson abbatté lo sfollagente sul berretto di maglia della ragazza.

Crack...

All'impatto sordo del legno sulla testa, una dolorosa vi­brazione si riverberò nelle mani di Thompson.

Ma qualcosa non andava. Il suono, la sensazione, non era­ no quelli giusti. Che cosa stava succedendo?

Thompson Boyd balzò all'indietro, mentre il corpo cade­ va sul pavimento.

E andava in pezzi.

Il torso del manichino cadde da una parte, la testa rotolò da un'altra. Thompson rimase a fissarlo attonito per un istante. Sulla metà inferiore dello stesso manichino era drappeggiato un vestito rigonfio, uno di quelli in mostra come esempi di abbigliamento delle donne nell'America della ri­costruzione.

No...

In qualche modo, la ragazza doveva avere intuito la mi­naccia che incombeva su di lei. Aveva sfilato i libri dagli scaffali come alibi per alzarsi, prendere un manichino, vestirne la metà superiore con là sua felpa e il suo berretto e infine si­stemarlo sulla sedia.

Ma adesso dov'era?

Il rumore dei passi in corsa era la risposta alla sua domanda.

Thompson Boyd la sentì scappare verso l'uscita di sicu­rezza. Rimise lo sfollagente nel taglio dell'impermeabile, estrasse la pistola e si lanciò all'inseguimento.

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