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La dolce vita non è un film che racconti qualcosa, nella misura in cui questa miscela di suggestioni, di idee, di colori, di personaggi non può attraversare gli anni senza perdere i legami con l'attualità. Un uomo della mia generazione, in definitiva, perde qualcosa e si trova per forza di cose con un legaccio in mano, intento a ricucire eventi e suggestioni, per non parlare di sentimenti e stati d'animo. Questo capolavoro ridotto a icona (la scena della fontana di Trevi ha tuttora una potenza immaginifica inferiore forse solo alla gonna che si solleva di Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo, dell'anno prima), questo gioiello infinito rischia di appannarsi se lo spettatore non si concentra appieno. Federico Fellini gioca, infatti, sulla pluralità di angoli visuali, sulle quinte della città: c'è tutto nella notte romana di questo film: belle donne, padri che ritornano, puttane e fantasmi. Come dice lo stesso protagonista: Roma una specie di giungla dove ci si può nascondere sempre. Eppure non basta tutto ciò a garantire la gioia o il piacere: sembra anzi che in troppi si compiacciano e che l'essere scontenti di sé sia merce ben rara.
C'è troppa pienezza di sé, troppa boria, troppa necessità di evadere e nessuna parete tra sé e il mondo. Oggi ho quasi l'impressione che Fellini avesse voluto vanificare le pareti che dividono il dentro dal fuori, salvo per una pura questione di linguaggio. L'uomo cerca evasioni, nel fumo, nell'alcool e nel sesso, però poi ritorna scontento, quasi più di prima. In questo mondo di sensazioni, ripreso dalle macchine fotografiche e dalle cineprese a ogni occasione, non c'è un angolo buio dove guardarsi dentro. L'intellettuale Marcello, diviso tra letteratura e giornalismo, rimane così un outsider in ogni sfera del suo agire, è troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per essere un professionista.
Però almeno Marcello parla una lingua tutta sua in un film che fa una sua bandiera del plurilinguismo e delle sonorità meno convenzionali. Ricerca, anzi, la sua strada per farne qualcosa di compiuto e si riconosce - senza però aderire pienamente - nel principio per il quale Bisognerebbe vivere nell'armonia che c'è nell'opera d'arte riuscita, in quell'ordine incantato. L'equilibrio non è il dono del protagonista, eppure Marcello mantiene le redini della sua vita, pur tra qualche caduta di stile o di energia. La vita del film di Fellini è mondana, lusinghiera e accattivante, forse spensierata, nell'insieme, incapace di seguire le fila di un percorso, ma finisce anche con l'essere tediosa e non è certo dolce. O, se lo è, lo è attraverso gli occhi di chi non la incarna: la dolce vita è un mito notturno tra gli altri, un'illusione tra le altre, qualcosa che appaga l'immaginario, un surrogato del miracolo e dell'epifania.
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