Da queste parti Denis Villeneuve è arrivato praticamente per caso all'uscita di Prisoners. Regista ancora non conosciuto, film che sembrava -sulla carta- non promettere nulla di nuovo, ha invece raccolto l'entusiasmo e il plauso in giro per la blogosfera, in cui anche i suoi passati film venivano menzionati come piccole perle.
Con Polytechnique ho quindi iniziato la mia breve incursione nella filmografia del canadese, trovandomi spiazzata di fronte a una storia e una realizzazione così splendidamente intense.
Con questo suo secondo lavoro -anche se quarto, vista l'apparente impossibilità a reperire i suoi esordi-, Villeneuve conferma la sua bravura in entrambi in campi, mettendo in scena una trama complessa e forte, sapendo dosare le emozioni con la grazia dietro la macchina da presa.
Tutto inizia con i gemelli Jeanne e Simon riuniti dal notaio di cui la madre era segretaria per leggerne il testamento. Per loro ci sono tre lettere: una da consegnare al padre (che credevano morto in guerra), una al fratello (che non sapevano di avere) e una per loro, da aprire quando le altre verranno consegnate. Frastornati dalle notizie, i due reagiranno in modo diverso, con Simon testardo e cocciuto che non ne vuole sapere nulla, ritenendo oltraggioso e un'ennesima pazzia materna questa trovata e quella di farsi seppellire senza bara e nuda, e con Jeanne, invece, spinta dal pensiero matematico ma anche dal desiderio di conoscere meglio la madre che parte per il Libano -dove Nawal ha vissuto prima di trasferirsi in Canada- alla ricerca del fratello. Il suo viaggio non sarà privo di ostacoli, con i parenti che vedono in lei l'onta della madre e l'omertà che regna attorno agli anni bui della guerra civile.
Quando la prima, amara e terrificante, verità verrà a galla, anche Simon arriverà nella terra natale, e inizierà la sua ricerca del padre, ancora più difficile da trovare.
Questo loro lungo viaggio tra paesaggi magnifici e rovine che continuano a fare da memento, è intervallato da flashback che in parallelo mostrano Nawal alle prese con decisioni e situazioni sempre più difficili da gestire e affrontare, con la sua testardaggine, la sua forza di volontà e la sua caparbietà che l'hanno portata ad essere soprannominata La donna che canta.
Un film non dovrebbe mai essere giudicato solo dal suo finale, ma se si dovesse, questo è uno di quei casi in cui si rimarrebbe senza parole di fronte a un segreto rivelato, una riconciliazione all'apparenza impossibile e una soluzione inenarrabile. Ma anche se si lasciasse per un attimo da parte il colpo di scena, che arriva silenzioso e inarrestabile, il film resterebbe in piedi per come riesce a raccontare una ricerca e un passato, per come l'intreccio tra madre e figli si compie a distanza di anni e per come Villeneuve ha messo in scena il tutto.
La prima, lunga e suggestiva sequenza, che si conclude sullo sguardo intenso di un bambino basterebbe a significare lo stile e la grandezza dell'intera pellicola, che avanza in modo solido in una costruzione senza intoppi. Il fatto poi che all'interno della colonna sonora ci siano anche dei pezzi dei Radiohead, non fa che aumentare la bellezza e la profondità di un film in cui anche la matematica viene messa in discussione.
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