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la donna di pietra

Da Foscasensi @foscasensi

Che lo voglia o no (e non so davvero se lo voglio o no), vivo in un periodo e in un luogo privo di fede. Non posso sostenere alcuno sgomento – il sentimento dell’erba o del vino, il succo dell’acqua, le bucce, l’arco del cielo o la lontananza delle montagne – senza  che mi venga in mente qualcosa di più di un lieve e onnipresente senso del meraviglioso. Dio stesso mi si mostra in forma elementare, si mostra sciolto nel coito o nell’abbattimento del mio sesso.

 

Una carie mi scava i denti. Lascio fare, lascio che il cibo riempia e fermenti la scalfittura nella valle della corona, che è un po’ come il sentiero di un verme. Quando scende la notte posso sentirne il lavoro secondo il ritmo delle pulsazioni sanguigne, forse è dio stesso che si mostra in forma elementare, sciolto nella sostanza di una larva o un cucchiaio d’argento che scava la polpa della testa. Se Egli è questo (e potrebbe esserlo, giacché non oso negarGli alcuna dimensione o malignità) forse il diavolo è la forma che è vinta da quell’unico Verme, una forma come una mela marcia.

la donna di pietra

 

Accadde la mattina di Capodanno.  Era una giornata di vento, mi trovavo a Parigi col mio fidanzato. La notte prima, per San Silvestro, dalle parti di Montmartre la gente congestionava i viali come un quarto stato. Non c’era alcuna aria di festa o di eccezionalità. La folla ingrossava, c’era chiasso davanti alle bancarelle di ciarpame, ai chioschi di baguette e nei ristoranti asiatici le persone sedevano costipate indifferentemente dentro o all’aperto, a bocca piena e al vento, lungo le strade i ciarlatani (tavoli di cartone, un ventaglio di banconote, due finte giocatrici dal collo scoperto e le calze tinta carne) proponevano ai turisti, ancora una volta, il gioco delle tre carte. Smarriti e con l’idea di partecipare a una festa che poi non avevamo trovato, avevamo lasciato in albergo i vestiti da sera e sedevamo in uno di quei chioschi.

Tenevamo gli zaini sulle ginocchia e lodavamo Parigi e la sua gente, senza il coraggio di guardarci negli occhi, col naso in una baguette pomodori e formaggio scaldata al forno elettrico e, nel mio caso, visto che non avevo spazio per riporla altrove, una bottiglia di minerale fra le cosce. Spaventati dalla pioggia, che ci colse atlantica e terrosa, consumammo il capodanno in una camera da tre soldi dalle parti di Nanterre, allacciati in un completo di lenzuola e cuscini presi in affitto, col televisore acceso su un canale del quale non capivamo nulla e una tazza di tè come unico genere di conforto.
Il giorno dopo Montmartre dormiva su un letto di vomito e cartacce. Salimmo le scale che portano alla chiesa del Sacro Cuore infinitamente più vecchi, con la leggerezza di chi è molto stanco e senza aver dormito, e sull’entrata trovammo una fila di persone incerte.

la donna di pietra

La basilica del Sacro Cuore di Parigi, in Francia, in stile romano bizantino

La mole della chiesa, con le cupole, i marmi accesi e i pluviali scolpiti come bestie di fantasia, era quasi invisibile per noi che le eravamo così vicini. Sotto, il sagrato scintillava di vetri rotti. Un uomo senza cappotto quasi corse ad aprire un chiosco di paté di fegato d’oca e dopo di lui il venditore di zucchero filato, i pittori di strada e la musica in filodiffusione finché il sagrato tornò alla fisionomia della fiera o del mercato  che ebbe la sera prima, solo infreddolito e più sporco, e la torre campanaria tremò nove rintocchi. La gente ondeggiava. Dopotutto, era tanto calma la terrazza sulla curva della città, le luci e i tetti inconsistenti, l’acqua spettrale sciolta sul paesaggio come un vapore e questa condizione di mistero che sbatteva o ingentiliva ogni cosa, nel primo mattino del 2012 dopo Cristo. E, a proposito di Cristo, Esso ci aspettava là dentro, travestito di fiori e lanciato nell’aria delle volte quasi fosse Egli stesso i suoi nervi di pietra, i dipinti come smalti, le medaglie e le altre cose che il personale vestito da hostess offriva ai turisti come viatico prima della funzione e del ritorno a casa.
Così entrammo in un momento in cui la musica era quasi all’inizio e un gruppo di suore in bianco cantava per la folla. E in mezzo agli uomini e le donne dei quali non ricordo nulla ce n’era uno che si era alzato in piedi e parlava a un idolo sospeso nell’aria. Nella fattispecie si trattava di una Vergine di due metri, dal corpo imbottito di marmo e disposta su un trespolo quasi ionico. L’uomo vestiva una camicia leggera e una giacca troppo grande. Nelle mani teneva un foglio in carta da ufficio, con un’intestazione lunga e alcune righe al centro della pagina, e da come inclinava la testa, da come sgualciva gli angoli fra i pollici si capiva come quel foglio contenesse qualcosa di decisivo e confidenziale. L’uomo aveva raggiunto i piedi della statua, che gli arrivavano alla spalla. Poi aveva letto il contenuto del foglio e si era passato una mano sui baffi, lucidi e neri come quelli di tutti gli indiani. Aveva guardato la statua negli occhi e aveva portato le dita alle labbra, mormorando le ultime parole possibili. Infine, più basso e più magro di ogni altro, era sparito nella calca.

sto ascoltando le Litanies à la Vierge Noire, di F. Poulenc


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