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Cresciuto nella magia dell'Ikebana, l'arte giapponese della composizione floreale, Teshigahara approdò al cinema quasi per caso. Suo padre, Sofu Teshigahara, era infatti maestro della scuola Sogetsu di Ikebana e Hiroshi seguì le sue orme prendendone il posto, dopo la sua morte, alla guida della scuola. Nel frattempo, studiando pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Tokyo, si appassionò alle tematiche del grande artista giapponese Katsushika Hokusai (sua L’onda) e ne trasse ispirazione per i suoi primi lavori. Fu però l’incontro con Kōbō Abe (安部 公房) che gli cambiò la vita. Ritrattista di un’umanità alienata, Abe fu uno dei maggiori casi letterari del secolo scorso, soprattutto grazie al capolavoro Suna no onna (砂の女, Woman in the Dunes) che poi altro non è che l’argomento di questo post. Sabbia. Sabbia. Nient’altro che sabbia. Sabbia che entra nei calzini, sabbia che insinua tra le pieghe della pelle, sabbia negli occhi e sotto la lingua. Sabbia. Sabbia. Sabbia. Paesaggio ostile, crudele, deforme. Sabbia, inconsistente nella sua unità di misura infinitesimale, ma mostruosamente consistente nella sua interezza. Dune di sabbia, instabili e soggette ai capricci del vento ma anche muri inamovibili, prigioni angoscianti, addirittura ossessive nella loro maestosità.
È in questo ambiente allucinante che Hiroshi Teshigahara fa muovere i suoi due kafkiani personaggi: un insegnante con il pallino dell’entomologia, e una giovane donna il cui unico scopo è la preservazione della propria casa dall’aggressività della sabbia. In un bianco e nero accecante (e non avrebbe potuto essere altrimenti) il regista si sofferma sui corpi, con primi piani intensi dei particolari, lunghe soggettive. Corpi avvinghiati, coperti di sabbia, pelle sbiancata, labbra impallidite dal caldo e dalla sete, pori, finanche i più piccoli orifizi, invasi dalla sabbia. E poi il sudore che scende copioso e, alimentandosi di sabbia, si trasforma in cemento, incollando tra loro i due corpi. Immagini forti, fastidiose, a volte insopportabili. E rapidamente si passa dai primi piani ai campi lunghi, quasi a voler sottolineare l’ineluttabilità dell’umana condizione, paragonandola all’esistenza umile propria degli insetti, quegli stessi insetti che hanno trovato nella sabbia il loro habitat naturale.
È in una prigione di questo tipo che finisce il nostro protagonista, in un’enorme fossa scavata nella sabbia, dalle pareti inaccessibili, all’interno della quale la sua ospite-amante-carceriera vive un’esistenza ai limiti del surreale. Il suo unico scopo è scavare, scavare, scavare. Liberare il proprio spazio vitale (mortale?) dall’inevitabile collasso delle pareti di sabbia. Solo scavando continuamente ella ottiene il suo scopo, la salvezza della propria abitazione (una misera capanna di legno) e un modesto salario, rappresentato da pochi generi di prima necessità “generosamente” offerti dagli abitanti di un vicino villaggio in cambio della sabbia scavata e a loro quotidianamente consegnata. Lei stessa non può né tantomeno vuole sottrarsi al suo destino: la sabbia è la sua vita e la sua punizione. È chiara la metafora della condizione femminile in Giappone: il termine okusan (おくさん), che significa “moglie” in giapponese, è l’unione dei termini san (in questo caso, signora) e oku (che significa “posto”, “interno” ma anche “profondo”), quindi lo si potrebbe tradurre come “colei che sta in casa” ma anche come “colei che sta nel profondo” e, per associazione, “colei che sta in fondo alla buca”. La suna no onna è quindi la dimostrazione vivente che il destino della donna giapponese è codificato. Ma alla nostra okusan, la protagonista del film, mancava un tassello fondamentale per potersi dire realizzata: un marito. Ed ecco che il malcapitato insegnante-entomologo capita a fagiolo: in cerca di insetti tra le dune, egli chiede ospitalità agli abitanti di un villaggio, che lo accompagnano alla capanna della donna. Durante la notte la traballante scala di corda, unica via di accesso e di fuga, viene rimossa… e il gioco è fatto. L’uomo nella buca non è tanto diverso. Inizialmente tenta di ribellarsi al destino che ancora non accetta come inevitabile, alla vita nella buca che potrebbe sembrare la morte dell’intelletto: poco più che mangiare, scavare, dormire; la materializzazione di quel vecchio adagio che dice che bisogna lavorare per vivere e non vivere per lavorare, che il protagonista stesso ad un certo punto parafrasa dicendo: "Do we shovel sand to live, or do we live to shovel sand?".
Successivamente in lui sopraggiunge la consapevolezza del proprio status, quindi la rassegnazione e la completa integrazione nel sistema, ma non nel suo aspetto prettamente negativo: la scintilla che gli permette di evolvere è il riconoscimento degli inestimabili tesori racchiusi nel proprio limitato perimetro. Tesori che non hanno nulla da invidiare a quelli, forse più luccicanti, presenti nel mondo esterno: l’amore di una donna, l’emozione dell’alternarsi del giorno e della notte, la bellezza di sentirsi vivi, le piccole scoperte quotidiane.
L’uomo nella buca somiglia al protagonista della satira di Orazio “Il topo di campagna e il topo di città”, nella quale il primo si reca in visita dal secondo, affascinato dalla promessa delle inenarrabili meraviglie della città, ma ben presto si rende conto che le sue abitudini di vita sono inconciliabili con la vita di città e, deluso, se ne torna a casa al riparo nella sua tranquilla tana. Se è vero che la libertà sta nella possibilità di scelta, egli è tornato finalmente libero.Dopo la mia esperienza giapponese, descritta in un mio post qualche mese fa, è inevitabile per me ritrovare in questo film ciò che ho visto con i miei occhi o che mi è stato descritto dagli indigeni, tutti molto simpatici per carità, con i quali mi sono intrattenuto in lunghe discussioni. Il popolo giapponese, dopo il disastro culminato con la resa del 15 agosto 1945, ha iniziato un lungo percorso, tuttora in atto, per riprendersi il predominio che, si suppone, spetti loro. Ecco quindi che i giapponesi si sono trasformati, metaforicamente, in industriosi insetti, perennemente al lavoro per garantire il benessere dell’alveare-stato. Nulla è più importante per il giapponese del far parte della società. Il problema è che in Giappone è assolutamente impensabile potersi integrare senza un lavoro e senza una famiglia. È per questo motivo che ancora oggi i concetti di amore e matrimonio spesso non coincidono: l’importante è sposarsi (non importa con chi, anche col primo che passa per strada), l’importante è mettersi in regola, dimostrare al proprio datore di lavoro o al collega che si è “conformi” allo stile di vita richiesto dalla società. È per questo, inoltre, che perdere il lavoro per un giapponese è una tragedia inaccettabile: significa venire emarginati e, sovente, non è concessa altra via di uscita che il suicidio.
Woman in the Dunes ottenne il Premio Speciale della Giuria al 17º Festival di Cannes del 1964 e, nello stesso anno, fu candidato all'Oscar come miglior film straniero. Dai romanzi di Kōbō Abe Teshigahara ha realizzato altre due pellicole, una precedente (Pitfall, 1962) e una successiva (Face of Another, 1966), quest’ultima recensita qui. I tre film, in lingua inglese sottotitolati in italiano, sono raccolti in un elegante cofanetto realizzato dalla Criterion, storica etichetta specializzata nei grandi classici. Il romanzo La donna di sabbia, da cui questo film è tratto, vinse nel 1962 il Premio Yomiuri. Ma di questo, e molto di più, vi parlerà Orlando…
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