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La donna in eta’ romana e il matrimonio.

Creato il 06 maggio 2014 da Gio74

Alla fine della II repubblica la madre si era vista riconoscere il diritto di custodire la propria prole, sia nel caso di tutela sia di cattiva condotta del marito. A Roma la famiglia è fondata sulla coniunctio sanguinis, poiché tale comunità era la più adatta a tenere legati gli esseri umani. Nel II inoltre secolo la patria potestas: l’autorità del padre sui figli e sulle donna si attenuarono fino a sparire.

Si potevano abbandonare i figli indesiderati nella pubblica discarica a morire di fame e freddo, soprattutto se bastardi e femmine. Tuttavia, se venivano risparmiati all’atto della nascita, il paterfamilias non poteva più sbarazzarsene, se non con emancipazione (si rompevano i legami tra il ragazzo e i suoi parenti della linea paterna, privandolo dell’eredità). Ciononostante il giovane poteva sempre godere del denaro della madre.

  1. Il matrimonio:

    Un tempo a Roma esistevano tre forme di rito: la conferratio, ossia l’offerta solenne da parte degli sposi di una torta di farro a Giove Capitolino, alla presenza del sommo pontefice e dell’officiante del dio supremo. Il Flamen dialis, vendita fittizia con la quale il padre plebeo emancipava la figlia al marito. Usus, che poteva dopo la coabitazione ininterrotta di un anno. Nessun rito si conservò oltre il II secolo d.C. Al loro posto si sostituì un matrimonio, somigliante al nostro. Questo era preceduto da un fidanzamento che consisteva in un impegno reciproco dei fidanzati, con il consenso dei padri e davanti a un certo numero di parenti e amici, alcuni invitati come testimoni altri come partecipanti al banchetto che concludeva la festa. Durante la cerimonia il fidanzato consegnava alla fidanzata dei regali e un anello simbolico. La fidanzata doveva infilarlo (al nostro stesso dito, anulare sinistro). Il giorno della celebrazione la fidanzata doveva raccogliere i capelli in una reticella rossa, protetti da sei cercini posticci, separati da bende, la parte alta del viso coperta da un velo arancio tenuto in loco da una corona di maggiorana e verbena. Indossava la tunica senza orli (tunica recta) fermata in vita da una cintura di lana a doppio nodo, la palla (scialle) color zafferano, i sandali e una collana di metallo. Con il fidanzato accoglieva la famiglia, gli amici e insieme si recavano in un santuario vicino o nell’atrium della casa per offrire un sacrifico agli dei (pecora, maiale). Quando il sacrifico della bestia era compiuto intervenivano l’auspex (esaminava le interiora e offriva garanzia del favore degli auspicii, senza cui il matrimonio non era valido) e i testimoni (che apponevano il loro sigillo sul contratto di matrimonio). Alla fine del banchetto la sposa veniva trasportata nella casa dello sposo, accompagnata da suonatori di flauti, tedofori, canzoni allegre e licenziose, infine lanciava ai ragazzi curiosi delle noci, simbolo di feconda felicità. Avanti a tutti muovevano tre amici dello sposo, il valletto d’onore (pronubus) brandiva la torcia nuziale, mentre gli altri due sollevano la sposa oltre la soglia della nuova casa. Tre compagne le portavano la conocchia e il fuso, mentre la terza (pronuba), damigella d’onore, la conduceva verso il letto nuziale. Lo sposo aveva così il permesso di togliere alla sposa la palla e le scioglieva il nodo della cintura mentre gli altri si ritiravano.



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