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La donna, la natura, l’Antichristo

Creato il 01 settembre 2013 da Wsf

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Lascia ch’io pianga, mia cruda sorte e che sospiri la mia libertà”.

Antichrist è tutto qui, nell’aria del Rinaldo che apre il prologo e chiude l’epilogo. Un’aria disperata in verità, ma anche l’unica vera carezza, presente nel film.

La storia seppur limitata nel numero dei personaggi, é altresì ricchissima di tutti quei simbolismi nordici e medievali che hanno reso grande il regista danese. I due protagonisti sono Willem Defoe, psicoterapeuta e Charlotte Gainsboug, sua moglie.

L’incipit del film narra della morte accidentale del figlio della coppia, avvenuta in una notte d’inverno. Durante un amplesso, i due non si accorgono dell’uscita dal box del bambino che attirato dalla neve che cade, mentre si allunga per toccarla scivola nel vuoto.

Dopo un lungo ricovero in ospedale, la madre appare sempre più incapace di elaborare il lutto, imprigionata in quell’intricato groviglio di sensi di colpa e disperazione e rimorso. Così il marito, affermato psicoterapeuta, ormai stanco dei continui fallimenti della medicina tradizionale, decide di portarla “nell’Eden”. Un piccolo chalet, sperduto tra le colline. Il processo di guarigione però, non si risolverà come previsto.

Il film si suddivide in capitoli. Quasi fosse un testo già scritto, pronto a ridefinire il concetto stesso di dogma 95, dipanando su celluloide tutto il mondo privato di Von Trier.

Le “crepe” della terapia analitica si allargano in sintonia con il vorticoso ondeggiare nell’aria di ghiande e zecche, di natura e Clito. Due elementi antitetici, ma sostanzialmente complementari. L’assalto notturno delle zecche é un preludio, che incarna il primo gesto fisico d’intolleranza verso la figura del maschio, un evento violento seguito dall’ingresso in scena, di tre piccoli mendicanti con il loro obolo di dolore e autolesionismo. Tre minuscole stelle splendenti, appese nello spazio, con puntine da disegno. Briciole di costellazioni unite tra loro da fili invisibili; il passaggio finale verso quella parcellizzazione dell’Io che accompagna l’odio. 

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Il primo mendico, che appare solamente all’uomo, é rappresentato dalla cerva partoriente, emblema del dolore.

Seguono il corvo, novello Mercurio portatore di disperazione e la volpe. L’uroboro peloso si manifesta sotto le sembianze di una volpe parlante che proclama l’imminente Regno del Caos.

Tutto consapevolmente predisposto per far capire che la malattia appartiene all’uomo. Quel male oscuro di vivere che s’annida nel silenzio dell’atto copulativo, mischiando indissolubilmente Eros e Thanatos.
Protagonista principale del film è la Natura: madre matrigna e spietata genitrice, che spaventa e schiavizza l’uomo, rendendolo incapace e fragile.

Per questo, l’albero sotto cui Charlotte si masturba é l’omega dell’alfabeto, l’ultimo anello della catena verso l’ipotetica ed irrealizzabile osmosi fisica con la madre terra.

Il clito, non é altro che un ambiente ostile dunque; nell’ugual misura in cui lo sono gli alberi, il vento, il ponte, il fiume. Un Eden carnale in cui i due novelli Adamo ed Eva profanano la loro psiche e il loro corpo, in una ricerca non più redentiva, ma coattiva. In una compenetrazione di sudore e terra, sperma e sangue che disegna un’ Apocalisse di San Giovanni costruita sulle convulse architetture pittoriche di Bosch.
Il viaggio interiore é però duplice. Quello di Defoe é un percorso di rinascita inverso. Un ritorno nel nascondiglio uterino fatto di terriccio e pietre. Una serie di “dodici passi” verso una conclusione già scritta. Nell’epilogo l’odio verso la figura femminile pare dissolversi, lasciando spazio a quel silenzio insondabile che solo il feminino é in grado di gestire.

L’Eros scompare, ormai svuotato della sua funzione procreativa cedendo il passo al gynocidio.

La dedica ad Andrej Tarkovsky chiude il cerchio come fosse un passaggio obbligato attraverso le pellicole del maestro russo. Ma mentre Stalker, si conclude con l’“Inno alla gioia” di Beethoveen, Antichrist implode nella sua stessa spirale di disperazione ed odio.

Defoe ormai impotente e spoglio, non può che ritornare alla terra diventando egli stesso il clitoride mutilato della natura.

Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi dunque.

Sarà proprio l’immagine dei tre questuanti ad incarnare la Belva Pavesiana, quel silenzio sordo e muto che accompagna inspiegabilmente l’uomo nel vizio assurdo di vivere.

Ma prima che “l’inno alla tristezza”, riempia nuovamente la quiete. L’orizzonte si ripopola di figure femminili senza volto. Le donne, le streghe, le vittime sacrificali, che rivivono memori, nell’antico universo chiamato “uomo”.

Mentre a noi, “come buoi canuti nella radura”, non resta che cedere il testimone e piangere.

Christian Humouda


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