Sono passati giorni rispetto all’ultima volta che ho scritto su questo blog. Una ventina, sommariamente. Mi sono data tempo, poiché molte cose nell’ultimo mese sono cambiate, in pochissime ore, ma questo non vuol dire che le proprie idee debbano essere abbandonate o accantonate.
Ci sono dei momenti in cui è necessario prendere aria, correre in tutta libertà verso quella porta in cui si ha la necessità di ritrovare le condizioni sane, che ti contraddistinguono da una vita, dopo che qualcuno ha deciso di sporcarle, senza giustificazioni motivate, sparando a zero nella condizione di potersi difendere.
Nell’ultimo anno – il 2014 – ho consolidato l’attenzione verso l’uso delle parole e nei termini che cerco di praticare. Sebbene io scriva in maniera molto lineare, senza ricorrere a chissà quali stratagemmi, cerco di affinare il linguaggio con l’attenzione giusta. Ci sono stati incontri decisivi che hanno rafforzato questa mia posizione, e ho ripromesso a me stessa che il 2015 sarà il periodo della resistenza, quello in cui le parole versate senza una origine valida muoiono nell’atto, e nell’attimo stesso, in cui esse vengono scritte o pronunciate.
Ci vuole coraggio per cambiare, ma se si vuole andare verso l’autenticità, bisogna riconoscerla prima in sé. Bisogna scavare nella profondità delle situazioni, ammettere che qualcosa è sbagliato e farsi impavido per la propria tutela, perché la vita è unica e sacrosanta e va vissuta al meglio, non rimanendo a scavare nella infinitezza del proprio baratro.
Le cose strane che succedono quando mancano tali condizioni sono le più subdole; la mancanza dell’altro spesso induce a creare giochetti strategici di provocazione. Se tutti fossimo onesti con noi stessi e imparassimo a capire e chiamare le situazioni con il loro nome reale, molte di queste sarebbero migliori – o avrebbero addirittura una tendenza alla evoluzione. Non occorre quindi stare lì a racimolare le briciole per mangiare, ma capire che con l’acqua si può vivere più del pane, almeno per diversi giorni in più, cioè fino a quando non incontri e riconosci chi è disposto davvero a darti la propria fetta sana, e che arriva a portarla e scambiarla con il tuo stesso passo. E’ un gesto di condivisione e di consapevolezza, di una scelta stabile, in un cammino di responsabilità comuni che passano prima dalla propria intimità, poi, da tutto il resto.
Il blog nel corso di questi due anni ha vissuto tanti periodi. Per questo non mi prefiggo obiettivi precisi, se non quelli che li ha contraddistinti dalla sua nascita. Seguire una linea di principio che si confà in modo fedele ai pensieri autentici dell’autrice, in una linea feroce di coerenza e coraggio, poiché ormai si è stanchi di ascoltare le tiritere di persone che per arrivare a Roma, da Latina, attraversano la linea ferroviaria dell’Illinois, attraversando chissà quali e quanti Stati, senza avere capacità di discernimento.
Qui si va dritti e spediti al punto, con la consapevolezza che ogni azione compiuta è quella giusta per il proprio essere. Chi non ha l’ardire di muoversi, calpestando le proprie e le altrui fragilità, può rimanere dov’è, almeno fino a quando nella propria testa non si insinua il dubbio dell’esame di coscienza, quello che fa rimuginare e negare per ore e ore sui fatti e passi falsi fatti, quei passi, che poi permettono di avere una voglia di ricominciare, per sentirsi rinnovati e depauperati dalle proprie stupide e inappropriate paure, maturate nell’orgoglio e nella provocazione della propria testardaggine.
Questi pensieri me li ha concessi, consolidati e restituiti un film polacco. Ho scelto di vederlo proprio il pomeriggio del 31 dicembre; fuori nevicava e ho sentito fosse il momento per dedicarmi a quella proiezione.
La doppia vita di Veronica è lavoro del 1991 diretto da Krzysztof Kieslowski. Una costruzione linguistica il cui registro è imperniato nella dualità di due personaggi femminili, identici, con lo stesso nome, ma che vivono in due paesi (e città) differenti: Lodz (in Polonia) e un paesino sperduto della Francia, Clermont Ferrant. Entrambe, in attimo fugace e inequivocabile, si incontrano a Cracovia.
Mentre l’una scatta una foto e non si accorge di nulla, l’altra, distrutta dalla malinconia e della ricerca di chissà quale desiderio, percepisce la presenza della sua sosia. In frangente solo si trova la dimensione di chi guarda attraverso il filtro di una fotografia senza avvertire l’umano, e quello di chi, viceversa, vive di questo flusso vitale frastornato, guidato da chissà quale desiderio, prendendone anima in un esatto momento: l’incontro fortuito di un’altra sé di cui non conosce nulla.
Il tragico si raggiungerà al ventisettesimo minuto.
Secondo Gianni Canova, che ha introdotto il lavoro nell’anteprima di #RaroArte su Sky Arte HD, la composizione registica rappresenta un rallentamento vissuto in un periodo cruciale dettato dai fatti di Berlino dell’89, oppure, al contrario “un film cerniera” che congiunge certe rotture.
Mi piace pensare che per l’attore maschile, presente in alcune scene, fosse stato scelto Nanni Moretti – che poi ha prontamente rifiutato.
Anche in questo caso, come in altra produzione di un altro regista polacco (Onirica – Fields of Dogs -Lech Majewski), un rimando alla Divina Commedia di Dante Alighieri.
La fotografia è totalmente metafisica. In certi punti sembra di essere nei quadri di De Chirico e di Hopper.
La colonna sonora è da brividi.
Buona visione.
Locandina:
Una delle sequenza più potenti:
Archiviato in:Arte, Crittocinema, cultura, film, riflessione, riflettiamo, vita e incursioni Tagged: 1991, blog, Bricolage, canness, dante, De Chirico, divina commedia, festival di canness, film, Francia, gianni canova, hopper, Italia, Krzysztof Kieslowski., la doppia vita di veronica, Metafisica, nanni moretti, Onirica – Fields of Dogs -Lech Majewski, polonia, raro arte, raroarte, regia, regista, riflessione, riflessioni, sky arte, vita