La fabbrica felice di Olivetti

Da Brunougolini
“Con Adriano Olivetti scompare una delle figure più singolari del mondo industriale italiano…” Così Adalberto Minucci, giornalista e poi dirigente del Pci accanto a Berlinguer, inizia il suo commento sulla prima pagina di questo giornale, il 29 febbraio del 1960, sotto il titolo "Adriano Olivetti muore sul treno Milano-Losanna". Il giudizio severo di Minucci, 53 anni fa, oggi andrebbe rivisitato, magari paragonando Adriano con un altro "capitano d'industria", Sergio Marchionne.
Serve allo scopo rileggere il discorso "ai lavoratori di Pozzuoli" pronunciato da Olivetti il 23 aprile 1955. E’ una fabbrica costruita davanti al golfo di Napoli con 1300 persone, con le architetture di Luigi Cosenza e i giardini di Pietro Porcinai, fotografata da Cartier Bresson, descritta da Ottiero Ottieri in "Donnarumma all’assalto". Alla folla degli operai napoletani l’imprenditore parla così: “Un giorno questa fabbrica, se le premesse materiali e morali intorno ai fini del nostro lavoro saranno mantenute, farà parte di una nuova e autentica civiltà indirizzata a una più libera, felice e consapevole esplicazione della persona umana…”. Scrive Luciano Gallino come quell’imprenditore ipotizzi nel futuro una forma di governo delle imprese che, se si fosse mai realizzata, "andava ben al di là dei casi di autogestione sperimentati più tardi in Jugoslavia, o della cogestione padronato-sindacati introdotta in Germania". Era il suo sogno rimasto irrealizzato. E per quel sogno non trasforma i profitti "come invece avviene ai giorni nostri nella maggior parte delle imprese, in larghi dividendi per gli azionisti, né in compensi per i massimi dirigenti pari a tre o quattrocento volte il salario di un operaio, né in spericolate operazioni finanziarie".
Nella fabbrica di Adriano ci sono biblioteche, servizi sociali, asili nido, colonie estive, scuole d’insegnamento tecnico-professionale. E, accanto a operai e impiegati, troviamo i primi psicologi (Cesare Musatti), sociologi come lo stesso Luciano Gallino, intellettuali come Paolo Volponi, Franco Fortini, Franco Ferrarotti, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti, Giovanni Giudici, Furio Colombo, Massimo Fichera. La fortuna dei suoi prodotti (ricordate la lettera 22, il computer mainframe Elea 9000 del 1959?) si basa sul peso dato alla ricerca, sulla qualità del lavoro, sulla estesa organizzazione commerciale. E ci sono anche, certo, le "spille d'oro” per i dipendenti con più di 25 anni di anzianità. Paternalismo come dicevano molti, compresi i sindacati e la sinistra politica? Lui stesso lo ammette segnalando la “enorme difficoltà affinché queste istituzioni non diventassero strumenti di paternalismo, fonte di privilegi, organi di selezione del tutto inadeguati”. Con l’idea insistente di “creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo”. Capisce in quei tempi ”fordisti” che l’uomo e la macchina sono “due domini ostili l’uno all’altro” che occorre conciliare. Sa che è necessario “togliere l’uomo da questa degradante schiavitù”. Bruno Trentin, all’epoca segretario della Fiom, gli rimprovererà anni dopo, in una intervista a “La Sentinella del Canavese” (quotidiano del territorio di Ivrea) di non aver voluto il confronto col sindacato creando una propria organizzazione aziendale (Autonomia aziendale). Dice Trentin: “E’ stata una scelta infelice… avrebbe dovuto mettere le sue idee al servizio di un confronto più generale con l'intero movimento sindacale italiano…”.
Ed ora che cosa resta della Olivetti? Se lo chiede perfino Grillo nel suo Blog. E’ passata alla Telecom con tutto quel che consegue viste i possibili passaggi spagnoli. A metà settembre, il nuovo amministratore delegato Olivetti Cinzia Sternini parla di un calo di fatturato di sei milioni. Attraverso innumerevoli ristrutturazioni si è passati dalle macchine per scrivere a prodotti innovativi, ai computer e infine a quelle che sono definite “soluzioni integrate e servizi”. Sono rimasti 620 lavoratori Olivetti. Fra questi 373 su 576, in Italia, utilizzano il contratto di solidarietà. E’ una lenta agonia. C’è anche chi alimenta la tesi di un complotto ai danni di questa che era una grande presenza innovativa. Un complotto ricondotto a una serie di forze che nel passato non avevano mai digerito le linee di condotta di Adriano sul piano produttivo e sul piano dell’organizzazione del lavoro. Vengono ricordate le battute di Valletta e quelle di Cesare Romiti, il malumore di molte forze per il voto decisivo di Adriano (parlamentare all’epoca) in appoggio al primo centrosinistra, i malumori degli americani.
Su un sito locale della Fiom (http://fiom-insiel.blogspot.it) troviamo una sorta di ricostruzione presa da un libro di Marco Pivato “Il miracolo scippato”. Nel testo si ricorda come le fortune della Olivetti nascano anche attraverso la nomina di un giovane ricercatore italo-cinese Mario Tchou alla guida del Laboratorio di ricerche elettroniche di Ivrea, nel 1954. Qui prende vita il primo calcolatore elettronico. Poi avviene la morte per infarto di Adriano Olivetti, seguita, un anno dopo, dalla scomparsa, causa incidente stradale, di Mario Tchou. E’ così citato un funzionario diplomatico, Giuseppe Rao che spiega come gli Stati Uniti fossero interessati “a tenere fuori l’Italia nel campo delle ricerche sui calcolatori”. Fatto sta che dopo la morte di Adriano e dopo la crisi economica seguita al boom degli anni Cinquanta, l’Olivetti vive una difficile situazione finanziaria. Un gruppo (FIAT, Pirelli, Mediobanca…) entra nel capitale e vende, nel 1965, alla multinazionale statunitense General Electric il 75 per cento della Deo, l’organismo dove gli ingegneri avevano costruito Elea 9003. Con tale vendita – o svendita, dice Rau – la politica industriale italiana cede agli Stati Uniti il primato nella ricerca scientifica applicata all’informatica. E così anche il sogno di Adriano s’infrange. E oggi ci rimane la Telecom con i suoi discussi destini e il modello Marchionne.
Bruno Ugolini

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