Non esistono molti libri – né molti autori – capaci di passare con facilità dal registro comico a quello drammatico, ma questo è uno di quelli. Magari non lo fa in tutte le occasioni con il dovuto controllo – si tratta pur sempre di un romanzo d’esordio – ma è indubbio che Miro possieda questo raro talento, che mette al servizio di un romanzo che potrebbe essere definito di formazione, o di antiformazione, ma che ha qualcosa anche del picaresco. Il nucleo della storia si svolge a fine anni Settanta e vede protagonisti cinque amici della periferia di Torino, uniti da qualche piccolo furtarello, dalla scoperta dei primi amori e dall’orgoglio di gruppo tipico dell’adolescenza e dei quartieri disagiati, innaffiato da scorribande pseudo-eroiche e motorini truccati. È su questa base che Miro costruisce in flashback una mitologia sgangherata, raccontata con un linguaggio che non sta fermo un attimo e che – a parte forse un’esitazione iniziale nell’innescarsi, come per eccesso d’introduzione – ti scorta di corsa in mezzo alle avventure del gruppo, gonfiandosi di iperboli fantasiose e spiazzanti, di metafore mai iperletterarie, anche quando in mezzo a un immaginario generalmente basso spunta qualche immagine lirica. L’episodio chiave è il momento in cui la banda crede di aver scoperto il covo dove viene tenuto prigioniero Aldo Moro e decide di liberarlo, in un’avventura che mescola alla perfezione tragico e grottesco. Il bello è che non si tratta semplicemente di un episodio gustoso, ma anche di quello in cui tutti i destini individuali trovano il loro senso, magari anche a distanza di tempo, aggiungendo il fatalismo ai toni di nostalgia e tenerezza per una stagione della vita indimenticabile, e a quelli di amarezza per averla tradita, come probabilmente quasi tutti gli adulti. Insomma, si ride e si riflette. Non sarà un capolavoro, ma una gran bella storia sì.
La faglia, Massimo Miro (Il Maestrale, 144 pp, 16 €)