La falena

Da Junrail
Come siamo finiti qui. Di questa stanza con le pareti di carta strappata. Una piccola porta, la fessura da cui sei entrato. Ti ho seguito attratta dalla mia disperata ossessione. Il canto della sirena. Eri una luce abbagliante per me falena. Non ricordo neanche il percorso per arrivare. Un lume acceso, tenace, sprigiona tutto se stesso, ma la stanza è grande e buia. Aspetto i tuoi movimenti. Immobile e ipnotizzata. Il pensiero di andarmene non mi sfiora. Dentro non so sentire nulla, la mente rimbalza contro queste pareti, aspetta che tu la raccolga, non lo fai. Non ci sono domande, non ci sono sorrisi. Siamo assenti entrambi, troppo lontani per tutto e questo silenzio che dovrebbe umiliarmi, invece, mi stordisce. A mala pena nell'oscurità mi accorgo che non mi guardi. Come è irrequieto e ceco questo mio sentire. Non si vergogna di nulla, nemmeno di me nuda nei miei desideri davanti al carnefice di turno.
- Fare sesso come fare musica - hai detto - ognuno di noi ha la sua melodia interiore, se le due melodie non si accompagnano perfettamente, o se uno non è abbastanza bravo da seguire la melodia dell'altro..
- Cosa succede? - com'è finto il mio scetticismo.
- Succede che il sesso può farti provare disgusto, può essere noioso può farti sentire auto il peggio di te. Capisci cosa intendo?
No, non lo capisco. Le tue teorie sono la cosa che meno mi interessa. Mi spaventano, molto spesso.
Ora hai colpito quella luce di lampadina che penzola dal soffitto.
Siamo soli. 
Mi sembra. 
Soli e sconosciuti, mentre mi fissi con quel ghigno d'occhi. 
Vuoi farmi capire che sono nella tua rete forse? 
Sì del tutto soli. Anche la coscienza ti ha lasciato il posto, non mi domina più.
- Non sono nella tua rete.
- A no? - il suo scetticismo, invece, è sferzante come uno schiaffo in pieno viso. Corrode.
Ride di me che sto dritta davanti al suo trono, inchiodata all'assurdo.
- No. Sono nella mia.
Ed è serio. Di un serio ridicolo e incomprensibile. Mi schernisce e poi mi raccoglie, mentre io sono già inginocchiata al suo cospetto tremendo. Nel nero di questa stanza che mi pare fuori dal mondo, che mi pare una grotta. Fa freddo. Mi sento tremare. Mi si avvicina.
- Tremi. Non me lo chiede. Non si stupisce. Accenna un sorriso conpiaciuto ed ha uno sguardo di compassione e pietà che con generosità mi regala. Un buco nero la sua voce. Un gravità malvagia il suo fiato. Mi accorgo che non ci sono finestre.
-  Smettila di tremare. Qui non succede nulla, sei al sicuro dalle tue tempeste.
Ed è il mago incantatore. Dopo le sue parole mi sento tremendamente stanca. Le mie tempeste. Ed è vero che vengo a rifugiarmi nel suo inferno per sfuggire al resto. Vorrei chiedergli di buttare la mia ancora, perché io non ci riesco. Cerco in lui il porto tranquillo in cui riposare, senza accorgermi che ogni sua parola è uno scalino sceso nella profondità dell'abisso. La vita non è questa, non lo è neanche l'amore. Il mio silenzio, invece, è un sì tremante ad ogni sua richiesta. Il mio abbandono è l'abbandono di me. Lo seguo anche dentro questa stanza, senza che lui abbia bisogno di chiederlo. Si siede su una vecchia poltrona.
- Vieni qua. Siediti. Siediti sulle mie ginocchia.
Ho timore quasi a toccarlo, a sfiorarlo appena. Lo stesso timore che si ha per gli incubi un istante dopo la coscienza del risveglio. Mi accoccolo su di lui. La punta del suo naso mi sfiora il collo a farmi provare fastidio e dolore. Ed è troppo tardi per tutto, ormai. Anche questa volta, troppo tardi per lanciarsi contro la luce e bruciarsi come fanno davvero quegli insetti pazzi quando incontrano la notte. Troppo tardi per prendere il largo. Le mie tempeste sono luogo molto più sicuro di quelli in cui lui potrebbe condurmi, ma la sua scia mi ha catturata anche sta volta.
Dopo la punta del suo naso niente più mi sfiora di lui. Non sento il battito del suo cuore e mi domando se questo essere sia solo frutto della mia fantasia, della peggiore crudeltà di me. Di certo, è il signore dell'agonia che fa delle mie debolezze il suo scettro di potere. Il gusto che ci prova sta solo nella sua natura, incompresibile per una mente sana. Su quella poltrona mi parla. Racconta storie, che non sono le sue. Spiega i misteri e i significati dell'essere, dell'esistere, dell'andarsene. Se faccio domande non mi risponde. Dura così per poco. Poi inizia la vera tortura, quella di quando mi porta a parlare della mia vita, dei miei mostri, delle strade che non so prendere. Parlo e mi accorgo di stare a mala pena a galla dentro un mare ancora più nero di questa stanza, ed è qui allora che trova il suo divertimento impagabile, è qui che si assenta completamente da me. Sparirebbe se potesse, ma invece resta a fissare il nulla, stanco del mio dire, mentre il mio vuoto gravido lievita. Cosa fa di me? Nulla. Assiste alla scena della mia auto-distruzione. Non mi ama, non mi usa nemmeno per il sesso. Ammira lo spettacolo della mia solitudine, del crogiolarmi in nuove ossessioni. 
Per evitarmi di vivere mi tiene con sé.
Marlene Kuntz: Ti giro intorno

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