Magazine Fotografia
Sto leggendo in questi giorni un bellissimo libro, dedicato alla vita di Clarence John Laughlin, "Prophet without honor" (A.J. Meek, University Press of Mississippi, solo in inglese, lo trovate su Amazon o anche qui). "Io lavoro dall'interno verso l'esterno, piuttosto che dall'esterno verso l'interno come fanno la maggior parte dei fotografi. Questo significa che io fotografo esclusivamente le cose che davvero eccitano la mia immaginazione, cose per le quali la mia immaginazione è già stata pre-sensibilizzata cosicché io possa percepire altri significati in quegli oggetti, che divengono così catalizzatori, punti focali o proiezioni del mio mondo interiore. Questo significa che io non faccio mai foto casuali", affermava Laughlin, fotografo davvero poco (o affatto) noto in Italia, e in realtà non molto conosciuto nemmeno in America, sebbene sia stato, con Wynn Bullock, Minor White ed Edward Weston il protagonista del periodo d'oro della fotografia americana, tra gli anni '50 e i '70. Aveva una caratteristica, Laughlin che lo rendeva unico: non accettava compromessi nella sua arte. Mai. Era un fotografo visionario e metafisico, interessato all'architettura e al mistero: il suo lavoro più noto è un libro fotografico dal significativo titolo "Ghosts along Mississippi" (1948), che in diverse edizioni ha venduto oltre 100.000 copie. Il volume raccoglie alcune delle immagini più significative che Laughlin, originario di New Orleans, ha dedicato alle vecchie ville padronali delle piantagioni "coloniali" che si trovano appunto lungo il grande fiume americano. Ridotte spesso a ruderi in abbandono, sommerse dalla vegetazione, queste grandi ville dallo stile classico, anzi palladiano, sembravano fatte apposta per eccitare la fantasia e l'interesse del fotografo. Ma i suoi contemporanei, il mondo delle Accademie e delle Università, i circoli dei fotografi famosi e degli artisti alla moda, sembravano incapaci di apprezzare il lavoro visionario di Laughlin, il suo modus operandi a tratti ruvido e anche rozzo, ma colmo di emozioni. Solo in tarda età ebbe finalmente qualche riconoscimento e solo dopo la sua morte venne inserito nel novero dei grandi fotografi americani. Un destino non raro, in effetti. D'altra parte non era un tipo facile: ad ogni foto era collegata una didascalia lunga e articolata (Laughlin voleva fare lo scrittore, oltre che il fotografo), che nonostante le richieste lui si rifiutava di ridurre o modificare; inoltre raramente accettava senza rispondere in tono piccato le critiche che gli venivano rivolte, anche quando erano fatte con motivazione di causa. Da qui a farsi la fama di uomo difficile e intrattabile il passo fu breve, e Laughlin pagò la sua scarsa flessibilità (che però era rispetto assoluto per il proprio lavoro) con l'isolamento e pesanti difficoltà economiche.
Ma perché vi sto parlando di questo fotografo semisconosciuto in Italia? Beh, in realtà il discorso che volevo fare è sulla nostra ricerca di una identità e la difficoltà di diventare qualcuno. Oggi se non sei qualcuno vuol dire che sei un fallito. Si cerca la visibilità, l'apparire, il vedere il proprio nome sui giornali o, meglio, in televisione. Anche se tutto questo significa perdere il rispetto di sé stessi. Come diceva Aristotele "la dignità non consiste nel possedere onori, ma nel meritarli"! Le cronache di questi giorni sono piene di gente priva di dignità, ma ricca di onori, se così possiamo definire il fatto di essere sulla bocca di tutti. D'altra parte non ci vuole poi molto a conquistare questa effimera notorietà: basta adeguarsi, basta rinunciare alla propria personalità, alle cose in cui si crede, e lasciarsi plasmare dalle convenienze. In breve qualcuno si accorgerà di noi! All'epoca di Laughlin la fotografia era in bianco e nero, ed era grandiosa, laccata, perfetta, bellissima. Chi avrebbe potuto notare un fotografo che andava controcorrente, che voleva esprimere sensazioni inusuali attraverso una iconografia non standardizzata? Un fotografo, poi, che non accettava di venire a patti con la "fotografia ufficiale", con i dettami di musei e gallerie che ben conoscono "il mercato"? Paul Strand, altro fotografo americano che Laughlin stimava molto, abbandonò gli USA per rifugiarsi a Parigi proprio per sentirsi libero di essere sé stesso (e anche per le sue idee socialiste), che è il minimo che un artista deve pretendere. Oggi le cose non sono cambiate, e anzi anche in Europa oramai la linea dominante è quella di allinearsi, altrimenti si resta fuori. Fate un giro per le gallerie o visitate le esposizioni più gettonate: la varietà di stili e modi espressivi sembra solo molto ampia, in realtà esiste un mainstream dal quale pochi cercano di allontanarsi, perché significherebbe collocarsi automaticamente fuori dal "mercato", non lavorare più a progetti milionari, non essere più coccolati dal potere e dai media, non essere più un "genio dell'arte", non essere più un nome che emerge dalla massa di perfetti sconosciuti ed è quest'ultima forse la paura più grande.
Ci riflettevo giusto ieri su questo aspetto. Essere noti e stimati ha i suoi vantaggi. Significa poter lavorare con tranquillità (economica), significa poter perseguire obiettivi importanti, e infine non essere del tutto ignorati che comunque, per un artista, è una condizione pesantissima, perché l'artista vive per comunicare. Anche Laughlin, in verità cercò tutta la vita un riconoscimento, sperando di essere scoperto dalla critica e finalmente tolto dall'anonimato o dalla notorietà limitata a pochi operatori di settore. Solo che era un uomo superbo, ma nel senso buono del termine, nel senso che il poeta Orazio ben riassumeva scrivendo "assumi la superbia, se i meriti lo richiedono". L'essere consapevoli delle proprie capacità è un dono raro. Sapere che la propria strada, giusta o sbagliata che sia, la si è comunque scelta in piena libertà, è una grande ricchezza, significa avere la capacità di riconoscere i propri meriti, anche se gli altri si ostinano a non farlo. Quanti hanno questa capacità? Quanti non finiscono per tradire sé stessi pur di allinearsi al potere? L'attualità politica, i Bunga Bunga, le Olgettine, i difensori del Berlusconi-pensiero, ma anche le opposizioni piegate su un trito antiberlusconismo, o a corto di fiato e intelligenza, non sono forse lo specchio di una società non solo morta, ma già in decomposizione? E come si colloca un artista in tutto questo sfacelo? Come il faro nella notte più buia, come il saggio che suggerisce una via d'uscita o come il cantore del degrado morale e umano, di fatto giustificato e accettato e dunque spacciato per necessaria "inquietudine interiore" e "profonda emozione"? Laughlin avrebbe saputo come rispondere, lui che odiava i "politicanti" ed amava la fotografia!
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