Anna Lombroso per il Simplicissimus
Mi perdonerete se oggi comincio con una annotazione personale: sono stata la compagna e poi la moglie di un uomo che aveva molti anni più di me. Eravamo ambedue poveri in canna, ambedue molto lontani dalle stanze del potere, esercitavo una professione, la stessa di lui, ed ero autonoma economicamente, provenivo da una famiglia colta, autorevole se non influente …. Eppure abbiamo dovuto lottare – e mi succede ancora – contro il pregiudizio che voleva intravvedere una qualche speculazione non del tutto disinteressata dietro al mio amore e al mio attaccamento per una persona che meritava apprezzamento, affetto, solidarietà.
Sono nata troppo presto: oggi il mio riscatto troverebbe supporter entusiasti, sostenitori animati e appassionati in tutti gli schieramenti, per quello strano fenomeno redentivo, unico in Italia, che vuole per forza attribuire alle donne, perfino a quelle della cerchia e degli appartamenti del condannato, meriti, indipendenza, autodeterminazione, dignità, noncuranza per patrimoni e privilegi, anche in presenza di alimenti miliardari, insomma valori di genere speciali, peculiari della femminilità, ammirevoli testimonianza di qualità muliebri giù per li rami, da Ipazia a Cornelia, da Penelope a Giovanna d’Arco, dalla Ibarruri a Maria Curie, con qualche distinguo per Hannah Arendt incistata nella storia con il nazista, fino a lady Diana, Veronica Lario, Ruby e oggi, trionfalmente, Francesca Pascale. Della quale viene dimenticata la disavventura dei fagiolini insieme ad altre esternazioni, considerate ingenue e fanciullesche esuberanze, per esaltare il suo nuovo ruolo di appassionata fan dei diritti, di accalorata propugnatrice della libertà di esprimere le proprie inclinazioni, di sincera fautrice della tutela delle differenze, dopo esserlo stato delle prerogative a 4 zampe. Tanto da aver persuaso della bontà delle sue convinzioni il suo quasi ottuagenario fidanzato, quello del “meglio puttaniere che gay”, quello che aveva risposto sdegnato alle maliziose indiscrezioni sulla mascolinità di Dudù, quello delle cene eleganti rivendicate come espressioni festose di virilità ben conservata, quello delle olgettine mantenute a mazzi, come i fior del fango, che grazie a lei aderisce all’Arcigay e alla possibilità che venga introdotto in Italia qualcosa di affine a un vincolo matrimoniale anche per gli omosessuali.
E via al coro di osanna a coprire i sussurri e i dileggi sul perverso legame tra una procace pollastrella e il vecchio porco, sulla disparità di età, censo, potere, sull’improbabile qualità del sentimento che muoverebbe la fresca ragazza a subire le attenzioni del bavoso criminale. Per non dire della invece probabile abilità del Grande Venditore e Utente Finale di usare famigli, congiunti, affini, cortigiani come comparse nel teatro della sua sopravvivenza, soldatini nella guerra per mantenere un ruolo politico salvifico di patrimonio, ambizioni, prestigio economico e consenso, del quale deve abbeverarsi come un vampiro del sangue delle vittime.
Dobbiamo proprio essere finiti male se cadiamo in questi trabocchetti, se ormai finiamo per soggiacere a certe menzogne convenzionali secondo le quali un ministro-carogna donna è meglio di un analogo ministro-carogna uomo, se una velina sdoganata da Luxuria diventa una sacerdotessa dei diritti, se le olgettine diventano vittime della cultura sessista e non volontarie e briose profittatrici, se fa più paura per la dignità delle donne Miss Italia in Rai del Jobs Act. E se a salvaguardia della sacra alleanza tra il vecchio criminale e il suo delfino diamo credito a qualsiasi narrazione, se ci accontentiamo di qualsiasi patacca spacciata sotto il nome di riforma, se crediamo a qualsiasi favoletta di quelle che si raccontano la sera ai bambini per farli addormentare. Ma non ce n’è bisogno, ormai siamo in letargo.