Non sono così sicura che esistano criteri oggettivi per definire cosa è arte e cosa non lo è. Non so se definirei a priori arte le performance di tutte le "famiglie Fang" di ieri e di oggi. So che però loro stessi, intendo chi concepisce e chi compie queste azioni, sente di fare arte. E che ci sono persone (alcune delle quali hanno in dotazione molti soldi e spazi espositivi importanti) che sono d'accordo con questa idea. A me basta. Come dicevo prima, prendo atto e sto a guardare. Quasi sempre quello che guardo mi piace.
Detto questo, non sono nemmeno così sicura che il tema de La famiglia Fang (Kevin Wilson, Fazi Editore) sia la definizione dell'arte. Se dovessi dare un ipotetico sottotitolo al romanzo sarebbe Dell'essere genitori (e dell'essere figli).
Per farmi capire riassumo brevemente la trama. I coniugi Caleb e Camille Fang sono performer noti in tutti gli Stati Uniti, celebri per le loro gesta artistiche in cui co-protagonisti immancabili sono i due figli Annie e Buster. Fino a che punto i figli (non) amino questo stile di vita, lo si comprende grazie a un salto temporale che li vede adulti, andati via di casa non appena l'età lo consentiva, ma finiti loro malgrado in attività artistiche che li ha resi celebri il giorno prima e meteore quello dopo.
A un certo punto i coniugi Fang spariscono nel nulla. Qualcuno pensa che siano stati uccisi da un noto serial killer, i figli temono sia un pretesto perché loro si attivino per ritrovarli. L'ennesima performance. Nessun figlio, per quanto possa essere grande il rancore, può provare indifferenza di fronte a una sparizione come questa. È così che - senza svelarvi il finale - si comprende da subito che, comunque vada, i due fratelli Fang sono costretti a fare una nuova performance con i genitori. Se sono vivi, la performance consiste nel mettere in atto azioni che li costringano a rifarsi vivi. Se non lo sono, la morte diventa la loro ultima, grande performance.
In entrambi i casi, insomma, i genitori Fang hanno costretto i figli a essere ciò che loro volevano che fossero: due performer. Che lo vogliano o meno.
Questo romanzo fa riflettere (e anche un po' arrabbiare) sui diritti e i limiti dell'essere genitori e dell'essere figli. Fa ripensare a tutti quei figli - letterari, cinematografici, ma anche reali - che da Neil Perry de L'attimo fuggente volevano fare gli artisti mentre i padri li volevano medici o avvocati. E fa capire che un artista non è necessariamente più aperto di mente: l'arte può diventare una trappola, se come i coniugi Fang non si coglie più la demarcazione tra arte e vita, tra arte e realtà, tra arte e senso della famiglia.