“La fanciulla muta” (Lepisma Edizioni, 2012) è il primo libro di poesie di Chiara Mutti, nata a Roma, appassionata di fotografia, letteratura, archeologia e antropologia, lavora presso l’archivio fotografico della Galleria d’Arte Moderna di Roma.
E del perché
della domanda, sempre
quella, che non ha risposta
porto nelle mie palme
il vuoto universale.
Questi versi tratti dalla poesia “Spleen” ci introducono nel percorso poetico che Chiara Mutti sviluppa in questo suo libro che è il percorso comune ai poeti che sempre si interrogano, interrogano e si sentono, a loro volta, interpellati. Dunque la poesia più che un rispondere è un interrogare ancora, un porre la domanda giusta a cui tentare di rispondere attraverso il cammino che è la vita stessa. La poetessa “impugna la penna” come fosse un’arma e nelle sue poesie vibra una certa ribellione, una certa profonda inquietudine, quasi un’ansia adagiata tuttavia sul “dolore calmo” di cui ci dice nella poesia che apre la raccolta. Un dolore calmo che è un canto sommesso, un mormorio di sottofondo in cui la parola poetica della poetessa immerge le sue radici, prende lo slancio per indagare la realtà esterna e gli effetti che questa produce nell’interiorità, in modo da conoscere meglio e la realtà e noi stessi. C’è nelle poesie di Chiara Mutti un alternarsi di momenti di quiete, di armonia a momenti in cui anche le cose che ci circondano sembrano ostili, riflessi di quel mondo interiore inquieto dove la “fanciulla muta” freme e scalpita. Fanciulla muta che nella poesia omonima sembra essere il silenzio che spesso è vissuto come una minaccia a quanto dentro preme per essere detto, per trovare una voce che ne faccia pronuncia, che lo converta in un dire diverso dal linguaggio comune, quotidiano, che lo traduca in poesia.
“Dall’oblio del tempo (…) estraggo brevi istanti”, ci dice la poetessa in “Echi d’infanzia” esprimendo la nostalgia per un mondo di stupore che la fanciulla muta porta dentro di sé ma che non riesce più ad esprimere assediata da una realtà che ci ammutolisce, pregna com’è di “dimenticate promesse mai mantenute” e che pure amiamo, che i poeti amano e cercano di averne cura attraverso il linguaggio, di rintracciare in essa il volto della sua originale innocenza e bellezza. Ma la realtà oppone resistenza allora il canto oscilla tra preghiera e bestemmia, allora ci si affida alla caparbietà della vita, la vita intima, profonda da cui sgorga la parola poetica. Molto bella la poesia “Mi lascio attraversare” dove forte emerge il senso della poesia come un lasciarsi attraversare per trattenere e ridonare solo ciò che veramente conta, solo ciò che è essenziale e che può dirci qualcosa di nuovo sul mondo e su noi stessi. E anche per lenire la solitudine: “E’ il dolore della solitudine/ uno stesso dolore per tutti”, ecco cosa ci accomuna, cosa unisce gli esseri umani è il senso di solitudine che ci abita e che nessun altro essere umano può mai colmare pienamente per cui in ognuno c’è un senso di vuoto a cui solo l’amore – l’amore dato più che quello ricevuto – può dare un senso. Dolore che come scrive Plinio Perilli nella bella prefazione può essere un “provvido Purgatorio di Grazia” essendo la sua intima essenza nella possibilità di farne terra su cui far fiorire la nostra vita. Fare della nostra vita un cammino di luce attraversato tuttavia dalle ombre che noi stessi e gli altri vi gettano e Chiara Mutti si fa accompagnare nel viaggio dalla poesia, con la poesia che quelle ombra scruta, indaga per comprendere il proprio tempo, per riscattare il passato e progettare un futuro. Il tutto nella consapevolezza che noi esseri umani siamo sempre sulla soglia, più o meno pronti alla partenza.
Ho un dolore calmo
Ho un dolore calmo
nell’animo
di cose sommesse
come un brusio di api
al proprio favo attorno
un tepore caldo di sole
uno sfavillio di luce
sulle onde alla canicola.
Ho un dolore calmo
e lontano
nel cuore
come di promesse
d’erba alta
agitata dal vento
di gridi gabbiani
e d’orme
lasciate sulla sabbia
e della mesta
solitudine dei cipressi
svettanti
sul finir della vita.
Echi d’infanzia
Dall’oblio del tempo
dai sepolcri
della memoria occulti
estraggo brevi istanti
come bianchi conigli
da un nero cappello di mago
quale canto
quale suono
ritorna alla mia mente
ricordi antichi
una triste sublime
malinconia di luoghi
un cortile chiuso
una fontana
aiuole rosa d’ortensie…
echi d’infanzia.
La fanciulla muta
Hanno chinato la cima
i cipressi
ad annusare l’odore dei prati
un odore bianco
un nonnulla
un marmoreo affiorare
di gigli
e il silenzio
è un richiamo del cielo
un sorriso stupito
un fantasma
la fanciulla muta.
Mi lascio attraversare
Mi lascio attraversare
verbo che scivola
si ferma
ristagna
si allarga
mi lascio penetrare
voce
che non è verso
poesia
che non è parola
ma anima
e vita
di vite vissute
mi lascio plasmare
divento terra
e lo sputo di dio.
Utopia e sogno
Non bacerò
le palpebre dell’arte
e i piedi della storia
non graffierò i miei fianchi
con scheletri di scienza
dalle mani ossute.
Copro le mie speranze
con rabbia lacera di orgoglio
un urlo violentato
dall’utopia e dal sogno.
Impugno la mia penna
e insorgo…
e maledico il dio
del fico e della vite.
Spleen
E del perché
della domanda, sempre
quella, che non ha risposta
porto nelle mie palme
il vuoto universale
contorto ramo secco
ancora assorbo
l’umidità del sangue
versato sulla terra
e ancora mi rivolto
nella cenere che il fuoco
ha condannato al rogo
Uomo sacro,
cranio,
nascosto simulacro
che il mio viso offusca,
porti, nell’orbita scoperta
del mio essere di ossa
- in estremo gesto -
la risposta.
L’abbandono
Prima che il solco
germogliasse la mia vita
prima,
prima del tempo.
Il treno che non presi
tacque il suo urlo di partenza.
Mossi la mano in segno di saluto
per sempre, sulla porta.
E volto pagina
E volto pagina
sono colei che volge
lo sguardo indietro
ma non torna
ed i vestiti smessi
non mi stanno
pure
vi riconosco
il peso del mio corpo
e lì dove ho sostato a lungo
l’anima si è consumata nella fibra
e lì dove ho mangiato
il cuore si è nutrito nella macchia
e lì dove ho ceduto
lo strappo si è allargato nel dolore.