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“La fanciulla muta” di Chiara Mutti

Creato il 17 marzo 2013 da Viadellebelledonne

“La fanciulla muta” di Chiara Mutti

“La fanciulla muta” (Lepisma Edizioni, 2012) è il primo libro di poesie di Chiara Mutti, nata a Roma, appassionata di fotografia, letteratura, archeologia e antropologia, lavora presso l’archivio fotografico della Galleria d’Arte Moderna di Roma.

E del perché

della domanda, sempre

quella, che non ha risposta

porto nelle mie palme

il vuoto universale.

Questi versi tratti dalla poesia “Spleen” ci introducono nel percorso poetico che Chiara Mutti sviluppa in questo suo libro che è il percorso comune ai poeti che sempre si interrogano, interrogano e si sentono, a loro volta, interpellati. Dunque la poesia più che un rispondere è un interrogare ancora, un porre la domanda giusta a cui tentare di rispondere attraverso il cammino che è la vita stessa. La poetessa “impugna la penna” come fosse un’arma e nelle sue poesie vibra una certa ribellione, una certa profonda inquietudine, quasi un’ansia adagiata tuttavia sul “dolore calmo” di cui ci dice nella poesia che apre la raccolta. Un dolore calmo che è un canto sommesso, un mormorio di sottofondo in cui la parola poetica della poetessa immerge le sue radici, prende lo slancio per indagare la realtà esterna e gli effetti che questa produce nell’interiorità, in modo da conoscere meglio e la realtà e noi stessi. C’è nelle poesie di Chiara Mutti un alternarsi di momenti di quiete, di armonia a momenti in cui anche le cose che ci circondano sembrano ostili, riflessi di quel mondo interiore inquieto dove la “fanciulla muta” freme e scalpita. Fanciulla muta che nella poesia omonima sembra essere il silenzio che spesso è vissuto come una minaccia a quanto dentro preme per essere detto, per trovare una voce che ne faccia pronuncia, che lo converta in un dire diverso dal linguaggio comune, quotidiano, che lo traduca in poesia.

“Dall’oblio del tempo (…) estraggo brevi istanti”, ci dice la poetessa in “Echi d’infanzia” esprimendo la nostalgia per un mondo di stupore che la fanciulla muta porta dentro di sé ma che non riesce più ad esprimere assediata da una realtà che ci ammutolisce, pregna com’è di “dimenticate promesse mai mantenute” e che pure amiamo, che i poeti amano e cercano di averne cura attraverso il linguaggio, di rintracciare in essa il volto della sua originale innocenza e bellezza. Ma la realtà oppone resistenza allora il canto oscilla tra preghiera e bestemmia, allora ci si affida alla caparbietà della vita, la vita intima, profonda da cui sgorga la parola poetica. Molto bella la poesia “Mi lascio attraversare” dove forte emerge il senso della poesia come un lasciarsi attraversare per trattenere e ridonare solo ciò che veramente conta, solo ciò che è essenziale e che può dirci qualcosa di nuovo sul mondo e su noi stessi. E anche per lenire la solitudine: “E’ il dolore della solitudine/ uno stesso dolore per tutti”, ecco cosa ci accomuna, cosa unisce gli esseri umani è il senso di solitudine che ci abita e che nessun altro essere umano può mai colmare pienamente per cui in ognuno c’è un senso di vuoto a cui solo l’amore – l’amore dato più che quello ricevuto – può dare un senso. Dolore che come scrive Plinio Perilli nella bella prefazione può essere un “provvido Purgatorio di Grazia” essendo la sua intima essenza nella possibilità di farne terra su cui far fiorire la nostra vita. Fare della nostra vita un cammino di luce attraversato tuttavia dalle ombre che noi stessi e gli altri vi gettano e Chiara Mutti si fa accompagnare nel viaggio dalla poesia, con la poesia che quelle ombra scruta, indaga per comprendere il proprio tempo, per riscattare il passato e progettare un futuro. Il tutto nella consapevolezza che noi esseri umani siamo sempre sulla soglia, più o meno pronti alla partenza.

Ho un dolore calmo

Ho un dolore calmo

nell’animo

di cose sommesse

come un brusio di api

al proprio favo attorno

un tepore caldo di sole

uno sfavillio di luce

sulle onde alla canicola.

Ho un dolore calmo

e lontano

nel cuore

come di promesse

d’erba alta

agitata dal vento

di gridi gabbiani

e d’orme

lasciate sulla sabbia

e della mesta

solitudine dei cipressi

svettanti

sul finir della vita.

Echi d’infanzia

Dall’oblio del tempo

dai sepolcri

della memoria occulti

estraggo brevi istanti

come bianchi conigli

da un nero cappello di mago

quale canto

quale suono

ritorna alla mia mente

ricordi antichi

una triste sublime

malinconia di luoghi

un cortile chiuso

una fontana

aiuole rosa d’ortensie…

echi d’infanzia.

La fanciulla muta

Hanno chinato la cima

i cipressi

ad annusare l’odore dei prati

un odore bianco

un nonnulla

un marmoreo affiorare

di gigli

e il silenzio

è un richiamo del cielo

un sorriso stupito

un fantasma

la fanciulla muta.

Mi lascio attraversare

 Mi lascio attraversare

verbo che scivola

si ferma

ristagna

si allarga

mi lascio penetrare

voce

che non è verso

poesia

che non è parola

ma anima

e vita

di vite vissute

mi lascio plasmare

divento terra

e lo sputo di dio.

Utopia e sogno

Non bacerò

le palpebre dell’arte

e i piedi della storia

non graffierò i miei fianchi

con scheletri di scienza

dalle mani ossute.

Copro le mie speranze

con rabbia lacera di orgoglio

un urlo violentato

dall’utopia e dal sogno.

Impugno la mia penna

e insorgo…

e maledico il dio

del fico e della vite.

Spleen

E del perché

della domanda, sempre

quella, che non ha risposta

porto nelle mie palme

il vuoto universale

contorto ramo secco

ancora assorbo

l’umidità del sangue

versato sulla terra

e ancora mi rivolto

nella cenere che il fuoco

ha condannato al rogo

Uomo sacro,

cranio,

nascosto simulacro

che il mio viso offusca,

porti, nell’orbita scoperta

del mio essere di ossa

- in estremo gesto -

la risposta.

L’abbandono

Prima che il solco

germogliasse la mia vita

prima,

prima del tempo.

Il treno che non presi

tacque il suo urlo di partenza.

Mossi la mano in segno di saluto

per sempre, sulla porta.

E volto pagina

 E volto pagina

sono colei che volge

lo sguardo indietro

ma non torna

ed i vestiti smessi

non mi stanno

pure

vi riconosco

il peso del mio corpo

e lì dove ho sostato a lungo

l’anima si è consumata nella fibra

e lì dove ho mangiato

il cuore si è nutrito nella macchia

e lì dove ho ceduto

lo strappo si è allargato nel dolore.



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